Inatteso, sebbene non proprio imprevedibile, il rovesciamento dell’ormai ex presidente boliviano Evo Morales avvenuto nel novembre scorso a La Paz, ha seguito modalità e tempi che innovano visibilmente le tecniche del colpo di stato in America Latina, grazie alle non poche apparenti estemporaneità che lo caratterizzano. Viene confermata la scarsa convenienza – se non l’impraticabilità – del “modello cileno”, fondato sull’uso di carri armati, bombardamenti, arresti di massa e generalizzati nelle sedi di governo. Le esperienze del passato e gli attuali equilibri geopolitici, globali e continentali, lo espongono a rischi eccessivi, a contraccolpi interni e internazionali. L’intervento delle forze armate resta decisivo, ma derubricato a precondizione tattica (in questo caso per costringere il capo di stato alla fuga, sotto esplicita minaccia per la sua incolumità e per impedire mobilitazioni di piazza). Il rafforzamento e l’avallo di un cambio del paradigma ideologico comporta inoltre un’evidente accentuazione fondamentalista del suo contenuto religioso, razziale e di classe.
I tempi appaiono diluiti e il procedere del nuovo potere golpista intermittente. Fin dal primo momento non sono mancati episodi di repressione violenta della protesta popolare, e con questa i morti in strada, affinché fosse chiaro quale delle parti dettasse le forme e il perimetro di una libertà provvisoria e condizionata. L’annuncio fatto agli undici milioni di boliviani di nuove elezioni generali per il prossimo 3 maggio si configura come il punto d’arrivo di un conto alla rovescia, entro il quale gli autori manifesti e occulti della spallata al sistema istituzionale, già sfibrato dal titanismo della presidenza Morales, dovranno completare la sostituzione fisica dei suoi dirigenti. Nel loro disegno, il voto dovrebbe ratificare l’attuale situazione di fatto, instauratasi a seguito dell’interruzione dell’ordine politico-costituzionale che, nel quadro di un’economia sociale di mercato con forti tratti dirigisti, ha ampliato i diritti e l’integrazione sociale grazie alla riorganizzazione dello Stato portata avanti dal MAS, il Movimento per il socialismo (Movimiento al Socialismo), il partito di Morales, con risultati riconosciuti e celebrati in America e in Europa.
Assommano a 250 gli avversari politici detenuti dai giorni del golpe. Quasi tutti con accuse sommarie, in molti casi reiterate tali e quali dopo che avevano ottenuto l’habeas corpus per le precedenti. Gli ex ministri Cesar Navarro e Damian Dorado, rifugiati nell’ambasciata messicana a La Paz, e ai quali il ministero degli Esteri boliviano ha concesso il salvacondotto previsto dalle convenzioni internazionali per uscire dal paese, sono stati arrestati all’aeroporto dalla polizia. C’è voluto uno scandalo internazionale perché potessero infine raggiungere l’esilio di Città del Messico. Patricia Hermosa, rappresentante legale dell’ex capo di Stato ora rifugiato a Buenos Aires, è finita in carcerazione provvisoria senza un’accusa vera e propria. Un altro avvocato di Morales ed ex ministro degli Interni, Wilfredo Chavez, ha chiesto protezione all’ambasciata argentina subito dopo aver denunciato il sequestro dei documenti personali con cui ha iscritto il suo assistito come candidato del MAS al Parlamento nella consultazione fissata per maggio.
Ufficializzate le liste, Evo Morales risulta registrato tra i candidati, stavolta al senato e non alla presidenza. Permane tuttavia l’incertezza dovuta alla discrezionalità del governo di Jeanine Añez e alle rivalità tra le diverse anime del golpe. Tra i requisiti richiesti c’è l’obbligo di residenza nel paese, mentre l’ex presidente è rifugiato in Argentina. Bisognerà perciò vedere cosa succederà tra il 24 febbraio e il 16 marzo prossimi, periodo durante il quale chiunque potrà presentare istanze per invalidare le candidature. Sarà poi il Tribunale elettorale, già opportunamente epurato, a decidere la conformità delle candidature, giudicando caso per caso. Il 16 marzo verrà pubblicata la lista definitiva dei candidati esclusi.
Verrà riconosciuta all’assenza di Morales il carattere di forza maggiore, visto che alla fuga è stato costretto dalla minaccia alla sua vita? Che ne sarà dell’accusa di “sedizione e terrorismo” che lo persegue per l’incitazione ad opporsi al golpe? Lo stesso candidato del MAS alla presidenza, Luis Arce, ex ministro dell’Economia, appena rientrato in Bolivia è stato incriminato per una presunta malversazione. Evidentemente tante indefinitezze sono funzionali ai tentativi di dividere e disgregare con ogni mezzo il MAS, che, sebbene stretto tra minacce e lusinghe, resta la prima forza politica in tutti i sondaggi, con oltre un quarto delle intenzioni di voto.
La storia di questo partito scaturito dal sindacalismo combattivo contadino interseca la biografia di Morales e riassume brani essenziali delle vicende boliviane degli ultimi decenni. Un paese creolo chiuso tra le Ande e il tropico, dominato da élites bianche formate all’estero, soprattutto nelle università degli Stati Uniti. La natura oligarchica dei loro governi li rende incapaci di farlo uscire dall’umiliante sottosviluppo, tra i più arretrati del continente. La popolazione non è però passiva né rassegnata. Le periodiche rivolte degli emarginati, di contadini, minatori e operai nella stragrande maggioranza di origini indigene, eredi delle antiche civiltà incaiche, nel 1952 diventano un movimento rivoluzionario. Armi alla mano, conquistano il suffragio universale, impongono la nazionalizzazione delle miniere e la riforma agraria, senza tuttavia riuscire a integrare un territorio nazionale impervio e vasto più di tre volte l’Italia, in cui intere regioni sono isolate dai centri urbani maggiori, prive di acqua potabile, elettricità, servizi igienico-sanitari.
Figlio di poveri contadini aymara, la formazione personale e politica di Morales attraversa la Bolivia rarefatta degli altopiani. La madre lo partorisce in una casupola di fango, su una pelle di pecora rovesciata per non sporcare la scarsa biancheria della famiglia. Quattro suoi fratelli muoiono al nascere o di malattie infantili. Lui sopravvive e impara prima ad allevare llamas, i camelidi andini, poi a coltivare coca, la robusta pianta sacra alle culture originarie, buona per le infusioni e l’industria medicinale (“la cocaina è tutt’altra cosa”, ripete ogni momento); infine a organizzare il sindacato per difendere un lavoro che altrimenti non gli garantisce neppure la sopravvivenza. Tutto a denti stretti, poiché in realtà la sua vera passione è il calcio. Oggi, a sessant’anni compiuti, con sulle spalle scontri di strada e in Parlamento, tre lustri al vertice d’un paese portato alla modernizzazione, fortune e rovesci che non hanno cambiato le sue frugali abitudini, appena può riunisce qualche amico per rincorrere un pallone. Non a caso neanche i nemici che lo odiano possono accusarlo di essersi arricchito.
Ma la democrazia è uno strumento complesso e delicato: mal sopporta un uso disinvolto, che sia pure per una ben intenzionata ansia di fare, per superare arretratezze ed egoismi corporativi o di classe, forza o ignora norme procedurali, volontà locali, radicate abitudini, fino a sconfinare in personalismi che trascinano a rinchiudersi nella presunta protezione di circoli poco permeabili. Morales non sembra essere riuscito a sfuggire del tutto queste tentazioni, certamente molto diffuse e non soltanto in America Latina. Importa ma non giustifica che gli avversari, non tutti ma quasi, facciano da sempre altrettanto e di peggio per scopi ben meno nobili. La provincia di Santa Cruz, la più bianca e dotata di risorse naturali della Bolivia, è intessuta di logge massoniche segrete che controllano snodi strategici dell’economia regionale, capeggiano la restaurazione, stimolano e si associano puntualmente ai colpi di stato, incitano al separatismo, restando viceversa inerti nella lotta contro il potente narcotraffico.
Morales, primo capo di stato indigeno nella storia della Bolivia a maggioranza indigena, ha riscattato la condizione subalterna dei suoi popoli originari (quechua, aymara, guarani), trasformando la Repubblica in Stato Plurinazionale. Ha sviluppato l’economia più di qualsiasi governo precedente e d’ogni altro paese latinoamericano (+5% del Pil per 14 anni di fila), azzerato l’inflazione, più che dimezzato la povertà, creato un’istruzione e una sanità pubbliche e gratuite, garantito la libertà religiosa. Poco ha potuto per avviare un’economia alternativa a quella tradizionale fondata sull’esportazione di materie prime. L’industrializzazione è un processo complesso, intersettoriale, inesorabilmente lento, che stenta nell’intero continente. Tanto più in quest’epoca di profonda trasformazione dei sistemi produttivi. Il centralismo statalista di Evo si scontra in conseguenza con le contraddizioni di una crescita a costi ecologici crescenti, in cui si fanno spazio corporativismi, interessi clientelari e di gruppo, non esclusi quelli di comunità indigene alle quali l’accesso alla modernità non basta perché accettino sulle proprie terre viadotti, dighe e centrali elettriche.
L’impazienza e un certo misticismo autoreferenziale gli giocano contro (a qualcuno ricorda quei calciatori che si irritano con l’allenatore che li richiama dal campo proprio quando a loro sembra che stiano sul punto di realizzare una giocata decisiva). Poiché la Costituzione non gli permette un’ulteriore candidatura (sarebbe la quarta, ne consente due), nel 2016 Morales indice un referendum che non convince neppure tutti i suoi, per riformarne l’articolo che gli impedisce di ripresentarsi. Ma sbaglia le previsioni e lo perde. Si rivolge allora al Tribunale Costituzionale come ultima istanza, ottenendo – attraverso il riferimento a una sorta di giurisprudenza internazionale comparativa – un verdetto unanimemente favorevole. Giunti al voto, il 20 ottobre 2019, a metà scrutinio è già avanti con un vantaggio sufficiente a garantirgli il ballottaggio, non la vittoria al primo turno. Non è chiaro perché ad un tratto venga interrotta la comunicazione dello spoglio dei voti, che riprende solo dopo una lunga pausa per annunciare l’elezione di Morales. Scoppia un pandemonio.
Il 31 ottobre una verifica di osservatori spagnoli, paraguayani e messicani su incarico dell’Organizzazione degli Stati Americani (Organization of American States, OAS) riscontra irregolarità, non gravi ma neppure irrilevanti. Morales apre la trattativa, disposto a rinnovare i membri del Tribunale elettorale e ripetere la consultazione. L’incidente gli ha però sottratto l’iniziativa politica, l’opposizione ha ormai invaso la piazza con la sua protesta e tirato dalla propria parte i comandi militari. Viene diffuso il timore di una “venezuelizzazione” della Bolivia. Su pressante invito del comandante in capo dell’esercito, Morales deve rifugiarsi prima in Messico poi in Argentina. Il MAS denuncia l’esistenza di un piano preordinato. A metà gennaio, nella riunione della OAS a Washington, il segretario di stato Mike Pompeo si rallegra pubblicamente del ritorno dell’Organizzazione “allo spirito degli anni Cinquanta e Sessanta”. Sono quelli delle presidenze Eisenhower, Nixon, Johnson e dei colpi di stato dall’Iran a Cuba, Guatemala, Honduras, Argentina, Repubblica Domenicana, Brasile.
Il rovesciamento istituzionale in Bolivia si riflette anche nelle candidature alle elezioni di maggio, che secondo il governo de facto di Jeanine Añez dovrebbero normalizzare il paese. Lei stessa, che aveva negato ogni ambizione personale alla Presidenza, e la maggioranza degli altri candidati sono ultraconservatori di confessione evangelica, espressione dell’élite orientale che ha accentuato il suo spirito ribelle e separatista da quando gas e soia ne hanno moltiplicato l’opulenza. È un fondamentalista, nel caso cattolico, anche il candidato Luis Camacho, leader dei comitati civici che con più accanimento hanno combattuto il governo di La Paz. Difendono le royalties che tradizionalmente le province ricche di risorse minerarie – a cui oggi s’è aggiunto il preziosissimo litio -, ricevevano in cambio delle concessioni di sfruttamento a società straniere, quasi sempre statunitensi. Il loro progetto è antagonista a quello industrialista del MAS. E costituisce la materialità della posta in gioco nella prossima consultazione. Il resto è sottocultura del pregiudizio.
Credits: Randal Sheppard . Attribution-NoDerivs 2.0 Generic (CC BY-ND 2.0), attraverso www.flickr.com