Myanmar Opinioni

Il nesso clima-energia e la povertà energetica in Myanmar

Il ruolo della cooperazione internazionale allo sviluppo

Gaspari Marco

Il Myanmar è uno dei paesi con i più bassi livelli di accesso ai servizi elettrici al mondo. Solo il 42% delle famiglie è infatti collegato alla rete elettrica nazionale, mentre il consumo pro-capite è di appena 160 kilowattora all’anno, ovvero 20 volte meno rispetto alla media mondiale. La quasi totalità delle persone che non ha accesso alla rete elettrica vive nelle zone rurali del paese e, in particolare, nelle regioni dove sono concentrate le minoranze etniche. Insieme all’area del Delta (questa sì a larga maggioranza bamar) gli stati Kachin, Chin, Rakhine e Thanitharyi registrano livelli di connessione alla rete elettrica addirittura inferiore al 20%.

Allo stesso tempo, negli ultimi anni, si è assistito a un aumento regolare del consumo di energia elettrica, con una domanda interna che è cresciuta del 14% annuo negli ultimi 5 anni, secondo i dati della Banca Mondiale.

Inoltre, un’infrastruttura altamente deficitaria, eredità degli oltre 25 anni di dittatura, unita alla eccessiva dipendenza dalle fonti idriche, rendono la rete esistente inefficiente ed inaffidabile. Rappresentazione plastica della situazione sono i continui blackout che affliggono i principali centri urbani di Yangon, Mandalay e Nay Pyi Taw. Tale situazione ha un chiaro impatto ambientale, giacché un numero sempre maggiore di persone fa ricorso a soluzioni energetiche profondamente inquinanti e non sostenibili, come i gruppi elettrogeni diesel, la cui diffusione ha contribuito a rendere Yangon una delle città più inquinate del mondo, dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità alla mano.

Sarebbe però un errore ritenere che la crisi energetica del Myanmar sia circoscrivibile ad una mera questione di elettrificazione. Una seconda dimensione del problema è conseguenza dell’uso non sostenibile delle risorse forestali per la produzione di energia domestica e industriale. Come si evince dall’ultimo rapporto UNREDD+ – Programma delle Nazioni Unite “Reducing Emissions from Deforestation and Forest Degradation” – , il mercato della legna da ardere e del carbone vegetale è una delle principali concause di deforestazione e di degradazione delle foreste birmane. Basti pensare, del resto, che l’80% dell’energia primaria del paese è ancora prodotta da biomassa.

Per quanto riguarda il carbone vegetale – ovvero il combustibile ottenuto dalla carbonificazione del legno – negli ultimi anni si è assistito a una crescita esponenziale delle esportazioni verso la Cina. Inoltre, c’è da dire, che nella maggior parte dei casi si tratta di attività illegali, indirettamente collegate anche al mercato nero del pregiato teak. Invece, per quanto riguarda il mercato interno, la domanda è veicolata in particolar modo dalla legna da ardere, sia come combustibile da cucina, sia come fonte energetica nei processi industriali, in special modo nella produzione di energia termica.

A tutto ciò vanno poi aggiunti gli effetti derivanti dalla crescita industriale del paese e dalla diffusione dei primi grandi impianti industriali a carbone di natura fossile.

La povertà energetica che affligge il Myanmar è pertanto uno dei principali freni ad una crescita omogenea del paese ed uno dei fattori principali dei bassi livelli di sviluppo umano. Ma cosa si intende per povertà energetica? Questa è definibile come la difficoltà di acquistare un paniere minimo di beni e servizi energetici, ovvero, in un’accezione di vulnerabilità energetica, quando l’accesso agli stessi implica una distrazione di risorse superiore a un livello socialmente accettabile. Gli alti livelli di povertà energetica, coniugati ad un’elevata dipendenza da fonti biomassa, obbligano le fasce più vulnerabili della popolazione a provvedere autonomamente all’approvvigionamento di combustibile. In pratica, questo si traduce in intere ore della giornata dedicate alla ricerca di legna da ardere. Particolarmente colpite da tale situazione sono le donne, a cui le convenzioni sociali affidano questo ruolo. Con ore sottratte al lavoro e/o allo studio, l’effetto diretto è quello di una marginalizzazione delle donne rurali birmane dalle attività produttive e più in generale una loro emarginazione dalla forza lavoro. Inoltre, da tempo, l’Organizzazione Mondiale della Sanità mette in guardia da come il ricorso a fonti biomassa per uso domestico, coniugato all’utilizzo di tecnologie da cucina poco efficienti, sia una causa diretta di inquinamento all’interno delle abitazioni. Ciò ha effetti in termini di malattie respiratorie, che tendono a colpire in maggioranza donne, bambini e anziani che normalmente passano più tempo in casa.

Per far fronte alla situazione, il governo birmano ha da qualche anno definito una politica di sviluppo energetico declinata in primis all’interno del Programma di Elettrificazione Nazionale (NEP). Tale intervento è composto da una componente di estensione della rete elettrica esistente e da interventi di fornitura di soluzioni off-grid (cioè, impianti che permettono di accumulare l’energia prodotta, rendendola poi disponibile al momento necessario e spesso non risultando connessi alla rete elettrica) nelle aree più remote del paese.

Il governo si è posto degli obiettivi molto ambizioni per il 2022 e addirittura si propone di arrivare ad un tasso di elettrificazione del 100% del paese entro il 2030. Il NEP è sostenuto dalla comunità internazionale come uno dei principali interventi di cooperazione allo sviluppo nel paese. In particolare, la componente off-grid, gestita dal Dipartimento dello sviluppo rurale (DRD) del Ministero dell’agricoltura, beneficia sin dal 2014 di un finanziamento di 400 milioni di dollari da parte della Banca Mondiale. A questa si sono accodate l’Agenzia di cooperazione tedesca GIZ e recentemente anche la Cooperazione italiana, che ha sottoscritto nel maggio scorso un accordo con il governo birmano per la concessione di un credito di aiuto di 30 milioni di euro.

La cosiddetta componente off-grid prevede la fornitura elettrica sia per usi domestici sia per usi produttivi mediante il ricorso a tecnologie prevalentemente rinnovabili, come pannelli solari, mini-centrali idriche e impianti misti. In tal senso, l’intervento ha il doppio scopo di contribuire a risolvere il dilemma del bassissimo livello di accesso ai servizi elettrici, sostenendo al contempo una transizione energetica che sia climaticamente sostenibile.

E il concetto stesso di transizione energetica è al centro degli sforzi di sempre più Ong internazionali, ma soprattutto europee che operano nel paese. Va da sé che, sia per vocazione sia per gli importi coinvolti, le Ong siano fisiologicamente lontane dai grandi interventi infrastrutturali quali l’estensione della rete elettrica. Tuttavia, non è un caso, che sempre più organizzazioni negli ultimi anni stiano lavorando sulla diffusione delle cosiddette “stufe da cucina migliorate”, meglio conosciute nel settore con il loro acronimo inglese ICS (improved cook-stoves). Si tratta in realtà di una tecnologia relativamente semplice che, grazie a delle modifiche di progettazione, specialmente per quanto riguarda l’utilizzo di materiali e la camera di combustione, rende la stufa molto più efficiente, riducendo il numero di emissioni. Il principio è semplice: a parità di valore energetico le ICS abbisognano di meno legna o carbone, riducendo altresì la pressione sulle risorse forestali. In paesi a vocazione profondamente rurale, o dove comunque la cucina a carbone è culturalmente radicata, la diffusione delle ICS permette di avere un significativo impatto in termini di mitigazione del cambiamento climatico. È per questo, infatti, che i progetti di diffusione delle ICS già da diversi anni possono accedere al credito sul mercato della Carbon finance.

Così in Myanmar, negli ultimi anni, varie Ong italiane tra cui Avsi, Terre des Hommes e Progetto Continenti si sono affacciate al mercato delle ICS. Altre ancora, come la francese Geres, hanno iniziato ad operare in Myanmar, proprio sulla base della certificata esperienza sul tema che le aveva già consentito di raggiugere il target di 3 milioni di ICS distribuite nella vicina Cambogia.

Come da subito ravvisato, la questione va ben al di là non solo della semplice fornitura elettrica, ma anche dei metodi di cucina. Si tratta quindi di creare una filiera sostenibile, legale e certificata dei combustibili da biomassa. In tale quadro, diviene interessante esplorare la possibilità di stabilire piantagioni commerciali a scopo energetico in quelle aree forestali oramai degradate in modo da costruire un cuscinetto con le foreste ancora intatte, generando altresì reddito per le comunità. Vi è poi il tema del valore energetico dei residui agricoli, in prima istanza delle bucce di riso che, se processate in bricchetti, costituiscono una valida alternativa alla legna da ardere, in particolar modo per le industrie.

E proprio la questione dell’efficientamento energetico nei processi industriali è uno dei grandi temi che dovrà affrontare il paese nei prossimi anni. Rendere competitiva la propria produzione rispettando i requisiti di sostenibilità ambientale che sempre più distributori internazionali richiedono, soprattutto nel settore del tessile. Le imprese birmane che si trovano all’interno delle supply-chain internazionali dovranno raccogliere la sfida e sviluppare un ciclo produttivo sempre più carbon neutral.

Il nesso clima-energia è indissolubile e in Myanmar sostenere la transizione energetica diviene una esigenza primaria, anche per accompagnare lo sviluppo e la crescita del paese.

 

Foto Credits:Jidanchaomian Attribution-NoDerivs 2.0 Generic (CC BY-ND 2.0), attraverso www.flickr.com