Il migrante che vive in Italia o in altro Paese dell’Europa è un attore sociale, economico e culturale che fa parte di due mondi: quello europeo d’accoglienza e quello di origine. È un mediatore sociale e un attore di sviluppo congiunto, poiché prende parte allo sviluppo socioeconomico di entrambi i Paesi. Ma il migrante, in quanto individuo, appartiene anche a una famiglia.
È separato tra due nazioni dallo spazio e dal tempo, ma mantiene sempre un collegamento, tramite le rimesse di denaro e tenendo vivi i legami familiari, anche se a distanza: questo è il transnazionalismo, il «superamento delle nazionalità e del nazionalismo», un termine creato per designare un nuovo modo di considerare le relazioni tra culture.
I migranti senegalesi sono in maggioranza uomini e sono dunque mariti, padri, figli che appartengono a una famiglia. Le responsabilità familiari li obbligano a mantenere relazioni transnazionali che vengono vissute in modo diverso dal punto di vista delle mogli, dei figli e degli stessi migranti.
Le principali responsabilità del marito sono quelle di mantenere economicamente i membri della famiglia, di assicurare un sostegno morale e di conferire equilibrio alla vita familiare. Il capofamiglia emigrato difficilmente riuscirà a assolvere pienamente al suo ruolo nell’ambito familiare, malgrado gli sforzi per mantenere i legami a distanza. Nonostante ciò, il suo intervento resta fondamentale per il vissuto dei membri della famiglia, anche se non può essere esercitato con una presenza fisica.
Per il fatto stesso di partire con l’obiettivo di assicurare il benessere dei suoi cari, il migrante può percepire se stesso ed essere percepito dagli altri come un buon padre e marito. Pertanto, indipendentemente dal genere di aspettative reciproche dei coniugi sul loro ruolo sociale o dal livello di attenzioni dedicate alla famiglia o alla figura genitoriale, la lontananza di padri e mariti può essere considerata come socialmente accettabile.
Tuttavia, il migrante si trova spesso frustrato per la sensazione di aver perso il suo ruolo, la sua autorità e il suo prestigio all’interno della famiglia. Inoltre, anche quando non si trova di fronte a vere situazioni di discriminazione e di razzismo, può essere perseguito a causa dell’irregolarità del suo status. Molti migranti senegalesi, avendo deciso di protrarre la loro permanenza oltre il limite autorizzato, si trovano automaticamente in situazioni di irregolarità che possono determinare provvedimenti di fermo e anche di espulsione.
La famiglia transnazionale è parte di una questione più ampia, quella del rapporto tra istituzioni familiari e processi migratori, in cui le famiglie transnazionali possono rappresentare – alternativamente – una forma di famiglia variabile e dinamica oppure una fase della vita familiare. La migrazione implica processi di frammentazione e ricomposizione dell’unità familiare che di solito provocano cambiamenti strutturali importanti del suo funzionamento.
Una volta trovata una sistemazione all’estero, il migrante senegalese di solito cerca di farsi raggiungere da un altro membro della famiglia. Quest’ultimo costituirà una seconda fonte di reddito per il sostentamento del gruppo familiare. Questo secondo migrante può essere un figlio, un fratello o un altro componente della famiglia, a patto che sia un elemento capace di iniziativa, che creda nei valori familiari e abbia una buona educazione tradizionale. Nella maggior parte dei casi si tratta del figlio maggiore, che dovrà poi dare il cambio al padre. Essendo più giovane, più forte e più ambizioso, sarà suo compito cercare di far raggiungere alla famiglia un miglior tenore di vita.
In questo schema, il migrante più anziano rientra sempre nel Paese d’origine, dopo un periodo durante il quale avrà aiutato il nuovo arrivato a orientarsi.
Esistono anche casi nei quali tutta la famiglia finisce per riunirsi nel paese straniero meta della migrazione. Si tratta in genere di migranti con alte qualificazioni professionali, imprenditori, manager, ricercatori universitari che si trasferiscono all’estero per alcuni anni o a titolo definitivo, portando con loro tutto il nucleo familiare, oppure si tratta di rifugiati in fuga da guerre e persecuzioni. Di solito però sono poche le famiglie che arrivano nel Paese d’accoglienza già formate e al completo.
Oggi, come trova conferma anche nei dati raccolti attraverso molte interviste per la preparazione di una tesi di dottorato sul tema, è sempre più frequente il caso in cui la giovane sposa o, comunque, una delle mogli (in Senegal è autorizzata la poligamia fino a quattro mogli), in genere la seconda, raggiunge il marito all’estero, da sola o con i figli. In tutti i casi esaminati, la situazione delle famiglie smembrate dall’emigrazione di uno o più dei loro componenti implica la ricerca della conservazione dei legami familiari e il sostegno a distanza, ma anche situazioni di sofferenza e di solitudine.
Le mogli dei migranti rimaste nel Paese d’origine soffrono molto per la separazione dai loro mariti, partiti per cercare di mantenere economicamente la famiglia. Va considerato che i primi anni d’emigrazione sono spesso dedicati a procacciarsi i documenti necessari per il soggiorno e alla ricerca di un lavoro. Inoltre, il migrante può trovarsi, a volte, temporaneamente senza lavoro. In tali circostanze, le mogli dei migranti devono occuparsi delle necessità della famiglia. Hanno il dovere di assicurare il cibo ai figli e di occuparsi della loro salute e educazione.
Gli abitanti del villaggio d’origine provano sentimenti contrastanti verso le mogli degli emigrati senegalesi, cioè al tempo stesso pietà e invidia. Esse infatti sono viste come mogli di qualcuno potenzialmente ricco, ma al tempo stesso sono portatrici di una sofferenza alimentata dalla solitudine e dalla paura. Questa situazione è dovuta a numerosi fattori di tipo sociale, economico e religioso. Nella società senegalese, la moglie del migrante raramente riceve altro sostegno se non quello che le viene dal marito, poiché gli altri abitanti del villaggio la considerano più ricca di loro. Purtroppo, il marito migrante si trova in diversi casi forzato a sposarsi anche nel Paese straniero di accoglienza, per poter godere di certi vantaggi a livello giuridico ed economico.
Secondo la testimonianza di una donna emigrata: «in questo periodo, la donna viene sorvegliata dalla comunità locale, che al primo caso di deviazione dai costumi e dalle tradizioni consolidate, la giudicherà come una cattiva moglie. Secondo le nostre tradizioni, una cattiva reputazione della moglie si traduce in una umiliazione che ricade sui figli e addirittura sui nipoti, e disonora i genitori». In questo contesto, la donna si rinchiude sempre di più nella sua sofferenza interiore, impossibilitata anche a soddisfare le sue esigenze personali. La moglie del migrante vive quindi in un mondo isolato, in cui i rari momenti di conforto sono rappresentati dai contatti telefonici col marito o dall’arrivo di un suo regalo, e dalla compagnia dei figli. Questi ultimi, oltre a pochi altri membri della famiglia, sono le uniche persone che compensano l’assenza del marito. L’equilibrio della coppia e i suoi rapporti interni ed esterni si sono trasformati, e tornare a vivere di nuovo insieme rappresenta un sogno.
Anche se le madri transnazionali si impegnano attivamente nella cura per i figli e nello sforzo di dare loro affetto e sostegno, la perdita della presenza fisica del capofamiglia viene vissuta, da loro e dagli altri componenti della famiglia, come la violazione di un modello profondamente radicato, quello del marito che si fa carico della moglie e dei figli. L’emigrazione implica un «transnazonalismo forzato» per il migrante, per sua moglie e in particolare per i suoi figli. I figli dei migranti, sebbene desiderosi di raggiungere i genitori nella terra promessa, devono affrontare la separazione da chi si è preso cura di loro, spesso per molti anni. Questo stress è particolarmente forte per le figlie femmine, sulle quali le forme di controllo e le aspettative di buon comportamento sono di solito più pressanti.
I genitori emigrati hanno sempre grandi speranze per i loro figli, e sono disposti a fare molto per fornire loro ogni possibilità di successo.
Secondo le interviste raccolte «i figli dei migranti senegalesi hanno condizioni di vita e livelli di consumi migliori, hanno più opportunità e alloggi migliori della media dei ragazzi della loro età, grazie al denaro inviato dai genitori». La maggior parte di loro raggiungerà i genitori per lavorare e prendere il loro posto, o per continuare gli studi prima di cominciare a lavorare. I genitori emigrati permettono loro di continuare a studiare all’estero, con l’obiettivo di poter poi ottenere posti di lavoro di buon livello.
Il concetto tradizionale di migrazione deve tener conto delle logiche transnazionali che caratterizzano sempre di più i fenomeni migratori. Le esperienze di transnazionalità facilitano l’articolazione e la visione del duplice e contemporaneo obiettivo di realizzare l’integrazione nel paese d’accoglienza e lo sviluppo nel Paese d’origine. Questo contribuisce al riconoscimento e alla valorizzazione dell’impegno dei migranti nei ruoli che essi svolgono all’estero e in Senegal, grazie alla loro doppia presenza.
Va in ogni caso sottolineato che il vissuto quotidiano dei componenti delle famiglie transnazionali è caratterizzato da un misto di speranza, dolore, distacco, ricongiungimenti, e infine dalla costruzione di un futuro, in condizioni assai difficili. Ciò dimostra che la migrazione non è un fenomeno esogeno, ma è profondamente incorporato nelle dinamiche delle nostre società.