La Cina in Siria e in Medio Oriente
Dopo l’annuncio del presidente Donald Trump del ritiro delle truppe americane dalla Siria, si è creata una nuova incertezza, quella relativa alla garanzia della stabilità del Paese e del nuovo equilibrio di potenza regionale. Nelle intricate dinamiche siriane, la preoccupazione per lo stato della sicurezza è comune tra i maggiori player, tra cui la Cina. Sebbene non abbia una presenza militare diretta nella regione, essendo il più grande importatore di petrolio al mondo Pechino investe molto nel Medio Oriente dove ha avviato un massiccio programma di investimenti infrastrutturali e altre attività commerciali. Già presente in Siria da prima dello scoppio delle ostilità, per lungo tempo la Cina è stata un importante partner commerciale, con un interscambio che nel 2011 si è attestato sui 2,4 miliardi di dollari.
Secondo le stime delle Nazioni Unite, nel lungo conflitto militare sarebbero andati persi circa 400 miliardi di dollari di asset. L’evolversi delle dinamiche regionali viene, quindi, monitorato attentamente dai funzionari cinesi, preoccupati di tutelare gli importanti interessi economici relativi soprattutto alla promozione dell’iniziativa Belt and Road, volta alla costruzione di infrastrutture e alla realizzazione di un piano statale utile a ripristinare le attività commerciali di Damasco.
Inevitabilmente, il peggiorare delle condizioni di sicurezza interne alla Siria influenzerebbe la presenza economica cinese nella regione. Viceversa, se la situazione si stabilizzasse le aziende tornerebbero in quanto fortemente interessate alla ricostruzione. Secondo fonti siriane, le aziende cinesi sarebbero benvenute nella fase post-bellica. Il ministro siriano per gli investimenti, Wafiqa Hosni, in più di un’occasione ha sottolineato che il governo di al-Assad ha preso in considerazione un coinvolgimento attivo della Cina, considerata ‘paese amico’ poiché in seno al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite si è allineato al veto russo. Inoltre, dato che il Caesar Syria Civilian Protection Act ha rafforzato le sanzioni imposte dagli Stati Uniti al regime e alle istituzioni finanziarie alleate di al-Assad, il governo siriano è oggi nella posizione di dover cercare alleati economici.
Dal canto suo, la Cina aveva già preso provvedimenti per entrare nuovamente nel mercato siriano. Durante la Fiera dei progetti per la ricostruzione della Siria, organizzata per la prima volta a Pechino nel 2017, è stato proposto un piano di 2 miliardi di dollari per ricostruire l’assetto industriale del Paese, mentre nel settembre successivo una delegazione cinese composta da 200 aziende ha partecipato alla 60a Fiera Internazionale di Damasco con l’intento di stabilire relazioni di lavoro in vista della futura ricostruzione. Inoltre, nel Forum di cooperazione tra Cina e Stati arabi del luglio 2018, le promesse di 20 miliardi di dollari di prestiti per lo sviluppo delle infrastrutture sono state accompagnate da un pacchetto di quasi 100 milioni di dollari dedicato all’assistenza umanitaria nei contesti bellici.
Stime della Banca Mondiale indicano che i costi per la ricostruzione si aggirano attorno ai 400 miliardi di dollari e, nonostante il forte interesse di Russia, Libano e Iran, oggi nessun Paese sembra avere più mezzi finanziari della Cina, che sta cogliendo questa opportunità anche per consolidare una vantaggiosa relazione geopolitica con proiezione globale. La Belt and Road, nata per favorire lo sviluppo economico della parte occidentale del Paese, più arretrata rispetto alla Cina costiera, mira a diversificare le rotte commerciali – in particolare le importazioni di energia – oggi soggette al passaggio in mari sotto il controllo statunitense.
In un’ottica più regionale, con il sostegno di al-Assad in una Siria stabilizzata Pechino potrebbe collegare Damasco al corridoio economico Cina-Asia centrale-Asia occidentale, oltre che avere accesso al porto di Tartus in Siria. Lo sbocco al mare è, infatti, una priorità nelle politiche espansionistiche cinesi. Recentemente è stata inaugurata una nuova linea di navigazione tra Pechino e Tripoli, a 30 km dal confine tra Libano e Siria, e quasi contemporaneamente nell’importante porto di Lattakia si è siglata la donazione di 800 generatori di energia elettrica dal governo cinese alla controparte siriana. Attraverso opere di ricostruzione e progetti di sviluppo delle infrastrutture, la Cina sta accumulando influenza in Siria e nella regione.
Ma non è tutto. Sebbene Pechino abbia da tempo evitato di intervenire militarmente in fronti esteri, indiscrezioni sulla cooperazione militare Cina-Siria farebbero intendere una svolta. La Cina sostiene espressamente le posizioni della Russia, che è pesantemente coinvolta dalla parte del presidente siriano Bashar al-Assad, come confermato dai veti posti alle risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’ONU che hanno comunque segnato un cambiamento rispetto al precedente uso dell’astensione per segnalare la propria disapprovazione. Il maggiore coinvolgimento della Cina rivela un nuovo approccio in politica estera: quando vi è convergenza di interessi Pechino è pronta ad allinearsi con le altre grandi potenze regionali. Essendo già un fronte compatto in seno all’ONU, Mosca e Pechino stanno anche incrementando la cooperazione militare tramite esercitazioni nel Mar della Cina e il rafforzamento del sistema congiunto di difesa missilistica. Inoltre, la Cina ha espresso interesse ad includere l’Iran nella Shangai Cooperation Organization.
Il Medio Oriente è certamente una regione strategica per tutte le grandi potenze ed è proprio facendo perno sulle relazioni politiche e gli investimenti esteri diretti che la Cina si garantisce un’effettiva influenza strategica. Ed è proprio da qui che i cinesi importano una parte significativa della domanda di petrolio. In questa logica entrano inevitabilmente in gioco i rapporti con Iran e Arabia Saudita, i due principali membri dell’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (OPEC), e il loro rispettivo coinvolgimento nel progetto Belt and Road. Teheran, versando in condizioni economiche non ottimali, necessiterebbe di capitale straniero e di supporto tecnologico per aumentare la propria produzione di gas. Tuttavia, anche se il potenziale di cooperazione tra i due paesi è elevato, il volume degli scambi commerciali bilaterali è oggetto di fluttuazioni e, soprattutto a fronte delle sanzioni imposte dagli Stati Uniti, gli investimenti cinesi sono diminuiti. Permane poi la preoccupazione iraniana per i forti legami tra Pechino e Riyadh. Puntando sulla carta infrastrutturale, uno degli obiettivi dell’Arabia Saudita è ridurre il ruolo dell’Iran come concorrente regionale. In tale ottica, Arabia Saudita e Cina hanno firmato un accordo energetico da 10 miliardi di dollari per costruire una raffineria e un complesso petrolchimico nella città di Panjin.
Espandendo la propria area di azione, la Cina sta dimostrando di saper tutelare i propri interessi anche oltre confine. E la questione degli uiguri (una minoranza etnica di lingua turca e di religione islamica che vive nel nord-ovest del paese, soprattutto nella regione autonoma dello Xinjiang) e la relativa presenza di combattenti estremisti in Siria ne è un’ulteriore prova. Da qualche tempo nel nordovest della Cina è in corso l’insurrezione degli uiguri contro il controllo di Pechino (molti sono i detenuti nei “campi di rieducazione” predisposti dal governo cinese), i cui esponenti più estremisti hanno fondato il Turkistan Islamic Party (TIP), un partito islamista che – con l’obiettivo di lottare per l’indipendenza – è riconosciuto dal governo cinese come organizzazione terroristica. Con l’acuirsi delle ostilità in Siria, diverse migliaia di combattenti uiguri sarebbero giunti a Idlib dalla Turchia e da altre zone limitrofe dove il TIP ottiene supporto e proseliti.
Certamente, al fine di evitare effetti spill-over ed eventualmente organizzare un intervento ad hoc utile ad assicurarsi commesse di ricostruzione, confinare la questione degli uiguri alla Siria è una priorità strategica per Pechino. Tuttavia, intervenire implicherebbe prendere in considerazione gli interessi di tutti i partner coinvolti, tra cui Russia, Turchia e Iran. Idlib è infatti al centro delle negoziazioni per assicurare la de-escalation della violenza, così come concordato nel Processo di Astana (avviato a cavallo tra il 2016 e il 2017), anche se permangono differenze significative tra i principali portatori di interessi. La Turchia, pur avendo offerto un certo supporto al TIP in passato, si sta impegnando per allentare la tensione nella zona e prevenire nuove offensive, oltre che evitare un nuovo esodo di rifugiati nel proprio territorio. Proprio sulle critiche di Ankara riguardo alle restrizioni imposte in Cina agli uiguri turchi, i rapporti bilaterali con Pechino sono diventati più tesi.
L’attuazione del progetto Belt and Road e il recente declino dell’economia turca sono state condizioni favorevoli per approfondire le relazioni economiche delle due nazioni. In passato, il principale ostacolo al consolidamento dei rapporti è stata l’adesione turca alla NATO e l’approccio internazionale orientato esclusivamente ad Occidente. Tuttavia, sin dagli anni ’90 Ankara ha iniziato a importare armi dalla Cina e più di recente le relazioni commerciali si sono intensificate arrivando a negoziare un accordo tra la banca centrale turca e quella cinese per transazioni bancarie nelle rispettive valute. Presente con circa 786 aziende sul territorio turco, la Cina è anche la principale fonte di importazioni della Turchia nel bacino Asia-Pacifico, dove la quota di import è passata dall’11,5 al 17%, mentre le merci turche esportate in Cina nell’ultimo quinquennio sono aumentate su base annua dell’1,6%. Già solidi a livello bancario e commerciale, i rapporti sono destinati a consolidarsi su opere infrastrutturali e progetti industriali. In quanto ponte tra Europa e Asia, il Paese della Mezzaluna occupa una posizione strategica, utile a espandere gli interessi cinesi verso occidente; inoltre, lo spostamento di Ankara verso est la renderebbe meno dipendente dal partner statunitense e sempre più bisognosa di agevolare i legami relativi alla Belt and Road. In altre parole, nella comune ottica di ricalibrare gli equilibri di potere nella regione, i due Paesi sembrano destinati ad avvicinarsi sempre di più.
In ogni caso, in riferimento al contesto siriano Mosca, sempre meno incline a tollerare la presenza di fazioni come il TIP, è il vero ago della bilancia nelle mosse strategiche di Pechino. Russia e Cina sono le più grandi e importanti potenze dell’Asia in termini di dimensioni, popolazione e forza militare e negli ultimi dieci anni la loro relazione si è consolidata notevolmente. Il rafforzamento della cooperazione tra i due paesi si basa in modo significativo sulla ricchezza energetica della Russia. Dal 2005 al 2016 le compagnie russe e cinesi hanno firmato diversi accordi di cooperazione. L’economia cinese continua a svilupparsi, con esigenze energetiche sempre crescenti, e l’approvvigionamento di gas ha permesso alla Russia di diventare il principale fornitore di greggio del paese (per un valore di 23, 7 miliardi di dollari) e spostare verso est i propri interessi strategici e politici. Il configurarsi di una Russia più politicamente e militarmente assertiva e di una Cina economicamente predominante è il collante della partnership sino-russa in contrasto con la visione egemonica degli Stati Uniti. Accomunata dall’opposizione all’ordine globale a firma statunitense, l’alleanza mira a spostare il perno della struttura economica mondiale sull’asse asiatico, modificandone gli equilibri.
L’alienazione da Washington è sfociata nella fondazione della Shanghai Cooperation Organization (SCO) promossa nel 2001 da Russia, Cina e dai paesi dell’Asia centrale post-sovietica, come contrappeso alla NATO ed elemento fondamentale di un’alternativa al blocco occidentale. Dopo l’imposizione di sanzioni alla Russia sull’annessione della Crimea, è stato evidente lo spostamento delle priorità strategiche di Mosca verso l’Asia, utile anche a diversificare il proprio mercato energetico. D’altra parte, anche le relazioni tra Pechino e Washington stanno rapidamente peggiorando a causa della guerra commerciale avviata da Trump. Anche in questo caso, il partenariato strategico sino-russo è stato agevolato dalla Belt and Road, il cui buon fine agevolerebbe l’attuazione degli accordi economici e il traffico commerciale a livello sia bilaterale che esteso all’intera area Asia-Pacifico. Tuttavia, Mosca inizialmente ha reagito con allarme e apprensione. La sua immediata risposta è arrivata attraverso l’Eurasian Economic Union (EEU), un progetto di unione doganale pensata inizialmente come strumento di influenza russa nelle repubbliche ex-sovietiche, ma che è stato successivamente ampliato fino a prevedere l’inclusione della Turchia.
Entrambi i progetti condividono lo stesso obiettivo di integrazione economica e di espansione nel mercato Eurasiatico. Il potere politico in rapida crescita di Pechino potrebbe però modificare lo status quo della regione e Mosca è consapevole di non poter competere con la crescita economica cinese. Inoltre, sebbene la cooperazione energetica tra i due paesi sia promettente, c’è anche una crescente sfiducia reciproca che potrebbe potenzialmente limitare la futura cooperazione. La Cina è desiderosa di aumentare le relazioni energetiche con le compagnie russe, ma Pechino vuole anche assicurarsi di non diventare eccessivamente dipendente da un unico fornitore. In un’ottica comparativa, la posizione della Russia in Eurasia è sicuramente più debole di quella cinese; tuttavia, è la Russia che apporta valore militare, mentre la Cina offre una variante mercantilistica, che sta diventando sempre più dominante a livello globale.