“Ci hanno diviso per anni ed ha funzionato con i nostri nonni e i nostri genitori; ora non funziona più, abbiamo capito il trucco.” (Giovane sudanese in un’intervista al Washington Post).
Le proteste di piazza che stanno animando da circa due mesi il Sudan rappresentano un’opportunità per liberare definitivamente il paese da trent’anni di sanguinosa dittatura imposta dal presidente Omar al-Bashir.
L’aumento del prezzo del pane e dei beni di prima necessità, l’uso indiscriminato della violenza da parte delle forze di sicurezza e la sempre più articolata e radicata corruzione del regime hanno portato nelle strade centinaia di migliaia di cittadini.
Il regime di al-Bashir, al governo da più di trent’anni, ha abilmente rafforzato il proprio potere attraverso le divisioni, da esso stesso alimentate, tra la componente araba sudanese –circa il 70% della popolazione- e le varie etnie africane e nilotiche che compongono il paese.
Il Sudan, con circa 20 etnie e più di 100 idiomi linguistici, è considerato il paese arabo più ricco sotto il profilo etnico-culturale. Tale differenziazione – spesso semplificata nella divisione in due gruppi principali, arabi ed etnie africane – è stata utilizzata dal regime per rafforzare e legittimare il proprio governo e reprimere, soprattutto dopo la crisi del Darfur, tutte le forme di dissenso interno.
L’etnia dei Fur – da cui deriva il nome della regione del Darfur, in arabo Dimora dei Fur – è stata una delle popolazioni vittime, insieme agli zaghawa e masalit, di questa ondata di violenza repressiva.
Nei primi anni 2000, la costituzione nel Darfur del Movimento per la Liberazione del Sudan (MLS) innescò una dura lotta contro il governo centrale, portando avanti una guerra che ha avuto – e ancora ha – risvolti drammatici per l’intera popolazione. Nonostante l’obiettivo del MLS non fosse quello di costituire un’entità indipendente dal governo centrale, bensì quello di arrivare ad un governo unitario che garantisse l’uguaglianza e il riconoscimento di tutte le componenti etniche sudanesi, il regime, sfruttando il fattore etnico e accusando il MLS di aver messo in pericolo l’unità nazionale, innescò una vera e propria guerra civile che causò una delle più gravi tragedie umanitarie dell’ultimo secolo.
L’utilizzo da parte del governo di milizie delle tribù arabe del Darfur (Janjaweed) per reprimere le azioni del MLS dimostra come il fattore etnico all’interno del paese sia stato sfruttato sistematicamente per legittimare il potere del regime.
La guerra in Darfur, oltre ad aver provocato un’emergenza umanitaria, sanitaria e sociale (ad oggi resta la regione più povera del paese), ha prodotto una politica discriminatoria istituzionalizzata da parte del regime, sostenuta dai potenti apparati di sicurezza.
In Sudan, così come nella maggior parte dei regimi arabi, il fattore sicurezza è uno dei punti forti del governo che gli consente di monitorare qualsiasi forma di dissenso interno. Esercito, polizia, servizi segreti e gruppi irregolari sono così i cani da guardia del regime che soprattutto negli ultimi anni ha dovuto fronteggiare, sull’onda delle rivoluzioni nel resto del mondo arabo, una serie di sommosse popolari (2011 e 2013).
Tuttavia il controllo, la repressione del dissenso e la discriminazione sistematica della componente “africana” non rispondono soltanto al fattore sicurezza; il regime, durante i suoi trent’anni di governo, ha creato un vero e proprio network clientelare che ha avuto e ha il compito di sorvegliare in modo capillare la popolazione all’interno dei luoghi di lavoro, nelle scuole, nelle università e nei luoghi pubblici.
È proprio all’interno di tali luoghi che la discriminazione governativa si materializza.
Non avendo la possibilità di trovare un lavoro dignitoso o un’università che gli consentisse di completare gli studi, molti sudanesi, soprattutto giovani, negli ultimi anni si sono spostati nella capitale Khartoum o altre città più centrali del paese per studiare, lavorare e, molto spesso, per partire alla volta del nord (Egitto, Libia ed Europa).
Tra questi luoghi è nelle università, secondo uno studio condotto dal Sudan Democracy First Group, che si sono registrate le forme più pesanti di discriminazione etnica nel paese. Le università in Sudan, come è avvenuto nel 2011-12 durante la cosiddetta primavera araba, sono state luoghi protagonisti delle proteste contro i soprusi del regime.
Il governo, sin dalla sua ascesa al potere nel 1989, si è reso protagonista di numerosi interventi violenti ai danni dei movimenti studenteschi all’interno delle università; e dall’inizio della crisi del Darfur e della conseguente “migrazione” di numerosi studenti nelle università della capitale, queste azioni sono aumentate a dismisura, creando un clima di repressione e discriminazione che si è materializzato in diverse forme all’interno dei campus. Agli studenti sudanesi provenienti dal Darfur è stato vietato di concorrere a borse di studio e fare richiesta per i dormitori universitari; addirittura ad alcuni non è stato riconosciuto il titolo di studio conseguito nella regione di origine.
Tutto ciò è stato possibile grazie alla complicità del network di regime all’interno delle amministrazioni universitarie le quali, nella quasi totalità dei casi, appartenevano al clan del presidente e al partito del governo.
Le violenze sistematiche all’interno dei campus sono state inoltre appoggiate dalle Unità Jihadiste: studenti appartenenti al partito di governo che avevano il compito di individuare e segnalare alle forze di sicurezza sudanesi eventuali studenti dissidenti. Le Unità Jihadiste, che controllano tra le altre cose anche l’Unione Generale degli Studenti Sudanesi, ancora oggi hanno un ruolo fondamentale nella repressione delle nuove proteste scoppiate il 19 dicembre in tutto il paese.
Al grido e all’hashtag tasqot bas (Cadi e basta: esortazione al presidente a lasciare il potere senza alcuno spazio di ulteriori contrattazioni), dal 19 dicembre 2018 centinaia di migliaia di sudanesi si sono riversati nelle strade per protestare contro il regime di Omar al-Bashir.
Oltre alle rivendicazioni economiche e politiche citate in precedenza, quello che colpisce è sicuramente lo slogan Kullena min Darfur (Veniamo tutti dal Darfur) che sin dall’inizio delle proteste è uno dei motti più citati nelle manifestazioni. Le immagini e gli slogan che testimoniano dell’unità ritrovata, semmai si fosse smarrita, ricordano molto quelli di piazza Tahrir al Cairo che ritraevano i manifestanti cristiani e musulmani che si proteggevano a vicenda durante le preghiere.
Agli slogan sono seguite le prime azioni concrete all’interno dei movimenti di protesta, soprattutto tra le fila degli studenti. Mentre in passato la maggior parte delle organizzazioni studentesche erano costituite sulla base della provenienza etnica (come l’associazione degli studenti del Darfur nell’università di Khartoum), in questi primi due mesi di protesta si è costituita la prima associazione unitaria degli studenti (l’Associazione degli Studenti Sudanesi, ASS).
Le loro rivendicazioni sono legate al tema della discriminazione e della presenza nei campus delle Unità jihadiste che, come riporta il manifesto dell’Associazione, sono le maggiori responsabili della violenza e della divisione del movimento degli studenti. L’uso indiscriminato della violenza da parte delle forze di sicurezza per reprimere le manifestazioni ha causato più di 40 vittime e centinaia di feriti dall’inizio delle proteste.
Malgrado questi eventi e nonostante la condanna della Corte Internazionale di Giustizia, dal 2015 il governo di al-Bashir gode di una nuova legittimità internazionale. Il Sudan infatti, insieme a Egitto, Libia e Tunisia, è un paese cruciale per le politiche europee in tema di controllo dei flussi migratori. È proprio sul tema della migrazione – dal rapporto CeSPI-UNHCR si evince che il 48% degli eritrei giunti in Italia tra il 2015 e il 2017 sono transitati o partiti dal Sudan – che l’Unione Europea ha riabilitato il regime di al-Bashir, finanziandolo con diversi milioni di euro destinati all’addestramento e alla fornitura di tecnologia per le forze di sicurezza, con lo scopo di sorvegliare i confini del paese.
Tali forniture – secondo il rapporto del The Enough Project si tratta di videocamere, scanner e rilevatori elettronici – hanno avuto una doppia utilità per il regime, permettendogli da una parte di controllare i flussi dei migranti ai confini del paese e, dall’altra, di sorvegliare in maniera ancor più capillare la popolazione locale.
L’obiettivo dell’Unione Europea era quello di potenziare le capacità del paese in termini di sicurezza per facilitare il controllo dei flussi migratori, permettendo al regime di servirsi di forze paramilitari (Rapid Support Forces) per il controllo delle frontiere. Anche in questo caso il regime ha saputo utilizzare gruppi paramilitari per il solo scopo di reprimere ogni dissenso proveniente dalle zone periferiche del paese, causando numerose vittime nelle manifestazioni di protesta che si sono susseguite nel paese tra il 2011 e il 2013 e in quelle ancora in corso.
È in questo contesto che si sviluppa e si accresce la discriminazione istituzionalizzata in Sudan; una discriminazione che si perpetua all’interno delle istituzioni anche attraverso il ruolo degli attori internazionali che hanno, in maniera più o meno diretta, legittimato un regime che negli ultimi venti anni ha compiuto massacri, in nome dell’unità nazionale e della stabilità, ai danni della propria popolazione.