Tra i temi all’ordine del giorno della 40esima sessione del Consiglio ONU sui Diritti Umani che si sta tenendo a Ginevra, la situazione relativa ai diritti umani nella Colombia del dopo-accordo di pace avrà un’attenzione tutta particolare. E non solo perché a quel paese è dedicato uno dei rapporti stilati dalla neo-eletta Alto Commissario ONU Michelle Bachelet, ma anche perché è in quel paese che oggi si gioca una sfida rilevante per chi lavora alla pace ed alla riconciliazione post-conflitto. Una sfida che fa i conti con la realtà cruda di un paese dove il conflitto, lungi dall’essere risolto, insanguina territori e miete vittime tra comunità storicamente escluse e marginalizzate. Una sfida tra pace e giustizia e, in questo caso, caratterizzata dalla necessità di applicare una chiave di lettura decolonizzata rispetto alla narrazione mainstream.
La firma dell’accordo di pace tra il governo colombiano e le FARC avvenuta nel 2016 è stata accolta dalla comunità internazionale con sollievo e soddisfazione. Finalmente, si pensava, il paese sarebbe uscito da decenni di conflitto sanguinoso e si sarebbe avviato verso un futuro di pace e prosperità. Per quanto rilevante questo accordo, restava ancora aperto il negoziato con l’Esercito di Liberazione Nazionale (ELN), bruscamente interrotto dal Presidente colombiano Duque nel gennaio di quest’anno, all’indomani di un sanguinoso attentato con auto bomba alla scuola di polizia di Bogotà. E nel corso dei mesi a venire sarebbe risultato evidente come per quanto concerne le comunità indigene, afro-discendenti e rurali la pace non è mai arrivata. Anzi, dalla firma dell’accordo di pace è aumentato a dismisura il numero di leader indigeni e contadini uccisi principalmente da forze paramilitari, nonostante il calo generale del numero di omicidi. Si stima che dal 2016 venga ucciso un difensore ogni tre giorni per un totale di 343 omicidi ad agosto del 2018. Questo numero non include le minacce o altre forme di intimidazione. Secondo il programma “Somos Defensores” dal 2016 si è registrato un aumento del numero di minacce ricevute dai difensori e difensore (952 dal 2016), queste ultime oggetto di violenza a sfondo sessuale sia all’interno delle loro comunità che da parte di altri attori.
Le categorie maggiormente a rischio sono i difensori della terra, chi si oppone ai megaprogetti ed attivisti per l’ambiente, vittime ed organizzazioni che li accompagnano, attivisti che si adoperano per la pace. In particolare, maggiormente vulnerabili sono i rappresentanti di popoli indigeni, afrodiscendenti e donne. Preoccupano gli attacchi contro i membri delle giunte di azione comunale che attuano piani per lo sradicamento della coca e la restituzione delle terre, o contro chi si oppone ad attività minerarie illegali. Fattore secondario sono gli interessi commerciali relativi a mega-progetti agricoli e infrastrutturali. Emerge così una stretta correlazione tra gli attacchi e gli sforzi volti a controllare le risorse, in particolare la terra, attraverso la violenza. Esiste infatti secondo gli osservatori, un forte nesso tra il ritorno in forze del paramilitarismo, delle mafie e degli interessi collegati alle attività estrattive. Con il ritiro delle FARC il terreno è lasciato infatti aperto per una corsa all’accaparramento e al controllo delle terre da parte di paramilitari che hanno legami con la criminalità organizzata, allo scopo di liberare quelle terre da ogni forma di possibile resistenza alla penetrazione di imprese, soprattutto nel settore estrattivo. Le regioni maggiormente interessate sono quelle di Cauca, Antioquia, Norte Santander, Chocó, Nariño, Putumayo, dove si registra il numero più elevato di omicidi.
Un massacro che rende necessaria una forte presa di posizione da parte della comunità internazionale ma anzitutto un’inversione nell’approccio alla questione. Cosa possibile mutuando due espressioni, quella coniata dallo scrittore uruguayo Eduardo Galeano nel suo libro “A testa all’ingiù”, (a patas arriba) e quella dell’intellettuale Raul Zibechi che ha cercato di sviluppare una chiave di analisi degli eventi politici in America Latina dalla prospettiva di chi sta “in basso”, (desde el debajo). Se ci si sforza di leggere gli eventi colombiani attraverso queste due chiavi di lettura, in un paese nel quale quelli che sono “in basso” – indigeni, contadini, afrodiscendenti – non hanno ancora avuto la possibilità di vivere in pace, si apre una differente narrazione, ben lontana da quella dominante. Una narrazione che ci racconta di persone e comunità che non vanno necessariamente considerate solo vittime da risarcire, loro diritto inalienabile, ma anche come attori politici e soggetti sociali che possono contribuire al cambiamento. Se solo si desse loro l’opportunità senza rischiare di essere uccisi. Questo è il caso della Comunità di Pace di San José de Apartadò, ma anche di molte altre comunità che hanno rifiutato la violenza e ancora lo fanno a loro rischio e pericolo, provando a dare il loro contributo per sanare le ferite del passato. Piattaforme di organizzazioni contadine ed indigene come la Minga por la Vida y la Paz, o la Commissione Etnica per la Pace che di recente si è offerta come mediatrice per una soluzione negoziata, all’indomani della rottura delle trattative tra governo e ELN.
Ciononostante, questi movimenti e queste comunità rurali ed indigene non sono considerate appieno dal governo colombiano, non solo per una supposta mancanza di volontà politica, ma per quella che un altro importante pensatore latinoamericano, il peruviano Anibal Quijano, definiva la colonialidad del poder: espressione che significa che gli indigeni e i contadini non vengono riconosciuti, sono resi invisibili da chi sta “sopra”, quando il governo colombiano continua a negare che esista un attacco sistematico alle comunità e non una semplice sommatoria di singoli eventi. Eppure l’Accordo di pace prevede misure di protezione dei difensori e difensore dei diritti umani e delle comunità e movimenti sociali.
Questo sulla carta. Nella realtà i fatti stanno andando diversamente, e la tragica contabilità delle vittime uccise per difendere la terra e i diritti umani è lì a dimostrarlo. Ad oggi le misure proposte dal governo colombiano sono infatti insufficienti, e non sono focalizzate sulle esigenze e la situazione particolare delle categorie maggiormente a rischio. Di fatto, la normativa interna non ha ancora a sufficienza incorporato la dichiarazione ONU sul diritto a difendere i diritti umani (che lo scorso anno celebrava il suo ventesimo anniversario) anche se nei mesi passati sono state annunciate misure importanti. Oggi il livello di impunità riguardo gli attacchi ai difensori dei diritti umani in Colombia resta assai elevato – 87% per quanto riguarda i difensori e 91% per le donne – e spesso non si indaga a sufficienza la possibile connivenza di membri delle forze armate, pubblici funzionari o imprenditori che hanno una storia pregressa di collusione con formazioni paramilitari.
Va ricordato anche che nel novembre dello scorso anno il Presidente Duque ha approvato un decreto per la creazione di una commissione di lavoro sul cosiddetto Plan de Accion Oportuna, iniziativa che dovrebbe mettere a sistema i vari programmi e strumenti di protezione di tipo collettivo e individuale per difensori dei diritti umani, leader sociali, organizzazioni comunitarie e giornalisti.
Sarebbe quindi l’occasione giusta per un salto di qualità e di approccio, finora centrato su misure di protezione individuale e non su un approccio sistemico che invece prevederebbe un insieme di misure mirate a proteggere lo spazio di agibilità per organizzazioni ed individui. Questo passaggio però richiederebbe un riconoscimento pubblico del ruolo e dell’importanza di chi opera “dal basso”, movimenti sociali, indigeni, o difensori dei diritti umani. Ad oggi, in realtà, non è stata presa alcuna iniziativa concreta per includere comunità indigene ed afrodiscendenti nei protocolli di protezione comunitaria previsti dall’accordo di pace. Le stesse comunità hanno poche possibilità di partecipare direttamente alla definizione di misure di protezione, e non è stato finora fatto alcuno sforzo per integrare i sistemi di sicurezza territoriale tradizionali, quali le guardie indigene. Il decreto presidenziale poi è stato messo a punto senza la consultazione diretta con le organizzazioni indigene.
Che fare allora?
In occasione della sua visita ufficiale in Colombia nel novembre dello scorso anno, il Relatore Speciale delle Nazioni Unite per i Difensori dei Diritti Umani, Michel Forst, ha formulato una serie di proposte concrete per porre rimedio alla situazione. Anzitutto il governo colombiano dovrà adottare ed attuare una politica integrale sui difensori dei diritti umani, che ne riconosca il ruolo fondamentale assicurando un ambiente sicuro per il loro lavoro, proteggendoli da attacchi, minacce, omicidi, violenza di genere. Una tale politica andrà sviluppata attraverso la partecipazione attiva dei diretti interessati, popoli indigeni, afro-discendenti, donne, società civile. Andranno stanziate risorse finanziarie sufficienti ad un efficace funzionamento, concentrando l’attenzione sulla prevenzione degli attacchi, l’interruzione della catena di omicidi e la fine dell’impunità. Andranno inoltre affrontate le cause che sono alla base degli attacchi ai difensori: dalla povertà all’assenza dello Stato nei territori a rischio, la presenza di formazioni armate, le economie illegali, la corruzione e la mancanza di rispetto dei diritti umani da parte delle imprese. Andrà poi data priorità a misure di protezione collettiva da parte della UNP (Unidad Nacional de Protección), rafforzando i meccanismi esistenti di protezione a livello comunitario ed affrontando le cause strutturali delle situazioni a rischio.
Andranno poi prese in considerazione altre iniziative a livello regionale che potranno contribuire alla protezione integrale dei difensori dei diritti umani in Colombia e più in generale in America Latina.
Ad ottobre del 2017 la Commissione Interamericana per i Diritti dell’Uomo e l’Alto Commissariato ONU sui Diritti Umani hanno lanciato un programma congiunto di lavoro, di ricerca sulle misure messe in atto nei vari paesi, e di collaborazione sull’applicazione di buone pratiche per la protezione dei difensori dei diritti umani in America Latina, Questo “meccanismo di azione congiunta” prevede anche visite comuni sul campo ed incontri con difensori e difensore a rischio.
Inoltre, per quanto riguarda i difensori della terra e dell’ambiente la CEPAL (Commissione Economica per l’America Latina ed i Caraibi) ha adottato in Costa Rica lo scorso anno un accordo vincolante sui diritti ambientali che integra una serie di impegni per la protezione dei difensori dell’ambiente e della terra. L’Acuerdo Regional sobre el Acceso a la Información, la Participación Pública y el Acceso a la Justicia en Asuntos Ambientales en América Latina y el Caribe contiene una sezione – l’Accordo di Escazù – che riconosce l’obbligo di proteggere i difensori dell’ambiente. Ogni paese firmatario dovrà garantire un ambiente sicuro e propizio nel quale persone, gruppi o organizzazioni che promuovono i diritti umani in tema ambientale potranno operare senza minacce, restrizioni o rischi per la loro sicurezza. Indica inoltre che verranno prese tutte le misure necessarie per riconoscere, proteggere e promuovere i diritti dei difensori e difensore dei diritti umani in materia ambientale, e le misure appropriate, effettive e opportune per prevenire, indagare e condannare attacchi, minacce o intimidazioni. UN Environment ha poi lanciato un’iniziativa simile a livello globale, mirata alla protezione dei difensori dell’ambiente.
Tutte proposte ed iniziative che andrebbero sostenute anche nel dialogo politico ed integrate nelle priorità di lavoro del nostro paese verso l’America Latina, considerando che l’Italia ha messo al centro del suo programma di lavoro per la sua elezione al seggio triennale presso il Consiglio ONU sui Diritti Umani (per il periodo 2019-2021) il sostegno e protezione dei difensori dei diritti umani e il sostegno al lavoro del Relatore Speciale delle Nazioni Unite sui Difensori dei Diritti Umani.