Dai quattromila metri in cui l’aereo avvia la discesa la foresta amazzonica sembra un incantesimo, un’illusione ottica sospesa nell’atmosfera. Quasi un oggetto onirico, non l’oggetto di conquista che l’hanno reso la politica e l’economia della crescita a ogni costo. Non si distingue un orizzonte vero e proprio, poiché alla vista il verde sottostante appare illimitato (7 milioni di km quadrati, due terzi circa dell’intera Europa). Pur con l’ausilio dei satelliti, i calcoli dei geografi restano approssimativi; parziali le mappe militari accessibili, in quanto sommano a ben 9 i paesi che condividono quest’immenso groviglio primordiale. Tanto meno possibile comprendere di quassù cosa contenga l’involucro di rami e foglie, solcato dalle spiegazzature dei corsi d’acqua, taluni giganteschi. Iquitos, la città-porto peruviana sul rio delle Amazzoni con oltre 500 mila abitanti, sembra un moscerino sul punto di affogarvi.
La dismisura della selva comincia a prendere forma allo sguardo umano sorvolandola con un piccolo Cessna a elica, che a ogni buco d’aria ci scivola dentro fin quasi a lambire la concreta realtà d’una vegetazione irregolare, alta e bassa, spezzata da radure provocate da incendi non sempre spontanei. Poiché sotto, a terra, separati e però interagendo gli uni con gli altri, spesso combattendosi sanguinosamente, ci sono gli uomini. Il 56 % della superstite popolazione indigena del Brasile: 250mila indios di 80 diverse etnie. Ai quali ne vanno sommati circa altrettanti nei paesi confinanti: Surinam, le due Guyane, Venezuela, Colombia, Bolivia, Ecuador e Perù. La grande maggioranza vive ancora in condizioni primitive, insidiata e in molti casi aggredita dall’espansione del latifondo e da avventurieri d’ogni risma in cerca di fortuna.
Al centro del bacino amazzonico (che dispone di un quinto dell’acqua potabile del pianeta), nella regione in cui i possenti rio Branco e rio Negro confluiscono in quello delle Amazzoni, il più lungo e con la maggior portata d’acqua del mondo, tribù nomadi e guerriere come gli atroaris, ben note agli antropologi, sembrano essersi dileguate nel fondo della foresta, dopo gli anni dei feroci agguati ai bianchi che penetravano nel loro territorio. A un migliaio di chilometri verso est, presso i confini con il Venezuela, in Roraima, i macuxi sono un esempio opposto: d’integrazione ai sistemi produttivi moderni. Grazie al tenace sostegno dei missionari italiani della Consolata, hanno recuperato con azioni politiche e giudiziarie migliaia di ettari dagli allevatori che glieli avevano sottratti, organizzandosi in efficienti cooperative di coltivatori.
Stiamo percorrendo in tutta la sua estensione un terzo delle foreste umide tropicali esistenti. Un’impareggiabile fabbrica d’ossigeno al servizio di tutti gli abitanti della terra, considerando che gli alberi assorbono grandi quantità di anidride carbonica. Qui vive il 30% delle specie animali e vegetali conosciute: arcobaleni d’uccelli e brulichii d’insetti, alberi che si inginocchiano e arbusti che piangono, fiori d’inebriante profumo e rane velenose, galline volanti, pesci elettrici, anfibi preistorici, orsi, giaguari, cervi, maiali nuotatori… E’ il contenitore di un bioma unico nell’universo, vale a dire di un paesaggio bioclimatico ininterrotto e comprensivo di vegetazione, meteorologia, dna umano e animale: un archivio genetico spontaneo e ineguagliabile, in parte ancora inesplorato. Il più potente fattore ambientale del nostro pianeta dopo gli oceani.
Negli ultimi 50 anni è stato frazionato e ridotto di oltre il 10%: strade e deforestazione l’hanno amputato d’una superficie pari a oltre due volte quella dell’Italia, per aprire spazi crescenti agli allevamenti bovini e alla coltivazione della soia destinati all’esportazione. “Se l’aria dell’Amazzonia è indispensabile alla salute del mondo, allora pagatela così come pagate il petrolio…”, mi disse ancora in piena dittatura militare il ministro dell’Economia, Antonio Delfim Neto, un politico di notevole intelligenza, cultura e cinismo. “Con il ruggito delle sue macchine, l’uomo bianco sta riducendo al silenzio la selva” commenta oggi Marcos Terena, un anziano leader degli xarayes del Mato Grosso do Sul, riecheggiando inconsapevolmente Goethe (“…torturata, la natura ammutolisce”), lui che del romanticismo non sa nulla ma vive giorno dopo giorno le severe condizioni amazzoniche.
Il Brasile (analogamente alla Colombia e alla Repubblica Democratica del Congo, ricchissima anch’essa di densi boschi pluviali) appare ormai in varie stime scientifiche tra le prime 5 fonti di emissioni gassose del mondo, proprio per effetto della deforestazione nel suo 65% di Amazzonia. Gli stessi ministeri brasiliani dell’Ambiente (MMA) e della Scienza, Tecnologia, Innovazione e Comunicazioni (MCTIC) hanno recentemente confermato che nel 2017 il disboscamento è stato intensificato del 13,7% rispetto all’anno precedente. E’ l’incremento maggiore dell’ultimo decennio. Senza che ne siano risultati apprezzabili vantaggi complessivi all’economia per le conseguenze ad esso attribuite, quali la forte riduzione delle piogge con relativa caduta della produzione agricola e di energia elettrica.
Per il suo gigantismo (oltre 8 milioni e mezzo di km2, oltre 200 milioni di abitanti, oltre 2mila milioni di U$D di PIL), il Brasile costituisce anche il fattore decisivo per il futuro prossimo dell’Amazzonia, di cui -ricordiamo- possiede all’incirca i due terzi. E’ quindi necessario guardare alle intenzioni del suo governo, guidato dal Presidente Jair Bolsonaro, ex militare, da 25 anni esponente dell’estrema destra nel Congresso di Brasilia. Insediatosi al Palacio do Planalto all’inizio del 2019, tra l’impegno a combattere “delinquenza, corruzione e ideologie subordinate e di genere”, nel discorso inaugurale (“Brasile soprattutto, Dio al di sopra di tutti!”) non ha dimenticato gli indios. Ma questo e altri suoi riferimenti hanno ulteriormente allarmato l’opinione pubblica consapevole dell’intima relazione esistente tra protezione dei popoli originari e dell’ecologia.
Le idee di Bolsonaro non sono infatti prive di ambiguità capaci di nascondere intenzioni subdole. Diffuso è il timore che la sua disponibilità a riconoscere i singoli diritti degli indios sulle terre amazzoniche di cui storicamente rivendicano la proprietà, miri in effetti alla possibilità di renderle più facilmente commerciabili. Con il risultato che per logica di mercato finirebbero con ogni probabilità a qualche grande fondo internazionale d’investimento e al suo sfruttamento più profittevole, quale che fosse. Un’introduzione massiccia del fracking, praticato in grande scala nella produzione petrolifera negli Stati Uniti, è vista come il pericolo numero uno. Già la usano i garimpeiros per estrarre oro, ma si tratta di pochi impianti individuali alimentati da piccoli gruppi elettrogeni. Un eventuale passaggio alla dimensione industriale provocherebbe un cataclisma.
Come aveva intuito Platone: la tecnica è un pensiero che sa nella misura in cui fa; ma non sa se ciò che fa sia bene farlo… A questa riflessione, Gunther Anders aggiunge che nei nostri tempi la tecnica ha cancellato il primato della natura; ma il potere che esercita resta tuttavia superiore al suo sapere: in quanto “il fare non è come l’agire”, poiché di questo non possiede la consapevolezza. Il fare è solo il compimento di un programma. La tecnica non ha finalità ultime predeterminate, si limita a seguire le procedure possibili e funzionali. Ma è ragionevole supporre che nel governo di Brasilia – già posto a dura prova dai clamorosi scandali per corruzione ed evasione fiscale che in poche settimane hanno costretto alla rinuncia il braccio destro del Presidente Bolsonaro e minacciano di portare in tribunale il maggiore dei tre figli, Flavio – pochi si pongano quesiti profondi.
Damares Regina Alves, 54, ministro per gli Affari Sociali, Diritti Umani, Donna e Famiglia, è una sacerdotessa evangelica, che propone il carcere per le donne che abortiscono. Sarà con ogni probabilità anche incaricata dei rapporti con le popolazioni indigene, che notoriamente nella selva praticano propri sistemi di controllo delle nascite. La storica Fundação Nacional do Indio (FUNAI), che se ne occupa con esiti alterni dal 1967, a Bolsonaro non piace. E intende smembrarla, sebbene la Procura Generale della Repubblica gli abbia opposto un’obiezione di costituzionalità. All’amico Luiz Antonio Nabhan Garcia, 67, proprietario terriero, organizzatore di milizie private armate e avversario dichiarato di indigeni e sindacati rurali, ha invece affidato lo speciale Segretariato da cui dipenderanno le riserve indigene e la riforma agraria.
Il terzo centro di governo dell’Amazzonia spetterà alla ministra dell’Agricoltura, Alimenti e Foreste, Tereza Cristina, 64, l’altra donna delle sole due volute da Bolsonaro. E’ un’imprenditrice convinta dell’utilità di concimi chimici e anticrittogamici attivi in agricoltura, che intende diffondere ulteriormente riducendo i controlli esistenti sulla loro nocività. Grandi multinazionali agrochimiche finanziano da tempo le sue iniziative. Così che gran parte della stampa la chiama la “musa dei veleni”. C’è infine Ricardo Salles, 45, avvocato, accusato da un tribunale federale di aver condotto una campagna elettorale illegale perché istigatrice alla violenza. Salles si è presentato per assumere il ministero dell’Ambiente dichiarando di essere “tendenzialmente favorevole a mantenere gli accordi di Parigi (nella periodica Conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico n.d.r.), senza che ciò significhi rispettarli acriticamente…”.
Alla domanda sulla sua disponibilità o meno ad autorizzare la società francese Total ad avviare ricerche petrolifere nel delicatissimo ambiente naturale di Foz de Amazonas, all’estremo nord, nello stato di Amapá, ha risposto che la risposta la daranno i fatti e non ideologie preconcette. Poiché a suo avviso regole eccessivamente severe inducono a comportamenti illegali o alla rinuncia a investire nel paese. Nello stato di San Paolo, in cui per breve tempo ha svolto la funzione di Segretario all’Ambiente, è stato accusato di aver manipolato la mappa delle zone protette per favorire le attività estrattive di compagnie minerarie. Salles, che ha intanto fondato un movimento di estrema destra da lui stesso denominato nazional-populismo, non mostra però altrettanta benevolenza verso le ONG ambientaliste, alle quali ha sospeso tutti i contratti esistenti in attesa di convalidarli personalmente.
Neanche la chiesa cattolica sfugge all’aperta ostilità del governo Bolsonaro. La convocazione di un sinodo Pan-Amazzonico per il prossimo ottobre in Vaticano ha acceso una rovente controversia. Il ministro alla Sicurezza Istituzionale, Augusto Heleno, uno del pattuglione di generali presenti nell’Esecutivo, ha lanciato la grave accusa di “ingerenza in questioni interne dello stato brasiliano. Una minaccia alla sua sovranità”. Il segretario generale della conferenza episcopale, Leonardo Steiner, ha replicato che “il Sinodo è della Chiesa per la Chiesa e coinvolge gli interessi dei popoli e dell’ambiente”. E nel corso degli incontri preparatori tra missionari, esponenti delle tribù native, antropologi, personale sanitario ed ecologisti, l’ex arcivescovo di San Paolo Claudio Hummes ed Evaristo Pascoal Spengler, vescovo di Marajó nello stato di Pará, hanno spiegato che la chiesa cattolica ha assunto la preservazione dell’ambiente come elemento fondante della sua incarnazione nella vita umana. Non può quindi restare indifferente di fronte alle minacce di depredazione che incombono sulla selva più grande del mondo.