No data available, nessun dato disponibile. È quello che appare quando si ha davanti una qualsiasi cartina geografica in uno dei tanti rapporti internazionali in materia di sviluppo umano, povertà o salute materno-infantile. Una zona grigia, una lingua di terra incolore tra il Marocco e la Mauritania, con l’indicazione che non vi è alcuna informazione al riguardo. Questo è il Sahara Occidentale, luogo la cui stessa esistenza è a molti sconosciuta, ma che è sede di uno dei conflitti più longevi e meno ricordati al mondo.
Ex colonia spagnola, è stato teatro di una guerra lunga 17 anni che dal 1975 al 1991 ha visto contrapposti il Marocco e il Fronte Polisario, l’organizzazione politica rappresentativa del popolo sahrawi, l’insieme di gruppi tribali e nomadi arabo-berberi da secoli residenti nell’area. In realtà, la storia del conflitto sahariano è più complessa, con la Mauritiana che sino al 1978 rivendicava il territorio per sé, la Francia che sosteneva sotto traccia l’esercito marocchino e l’Algeria che fiancheggiava i militanti del Polisario. Era il novembre 1975 quando il Marocco organizzò l’impressionante manifestazione di piazza, conosciuta come la marcia verde, che vide centinaia di migliaia di marocchini entrare nell’allora colonia spagnola per fare pressioni sul governo di Madrid affinché accelerasse l’abbandono del paese, cosa che avvenne al principio dell’anno successivo. Immediatamente il Fronte Polisario proclamò l’indipendenza della Repubblica Democratica Araba dei Sahrawi (RADS), mentre il Marocco consolidò la propria presenza militare dell’area. Gli anni di guerra successivi non modificarono gli equilibri in campo. Si giunse così all’accordo di cessate il fuoco del 1991, sulla base di una promessa di referendum che avrebbe dovuto definire il futuro del Sahara Occidentale, sospeso tra integrazione formale al regno del Marocco e indipendenza. In realtà, il referendum non si è mai realizzato ed è da quel momento che la situazione entra in una fase di stallo che si protrae da oltre un quarto di secolo. In mezzo una lunga serie di negoziati falliti, di piani formulati e di proposte bocciate.
Oggi il Sahara Occidentale è diviso in due parti. Il governo marocchino occupa l’80% del territorio, i principali centri e l’intera fascia costiera. Il restante 20% è composto da deserto inabitato e inabitabile, intervallato da sparuti e polverosi avanposti militari dell’esercito sahrawi. A dividere queste due realtà vi è il berm, il lungo muro di sabbia costruito dai marocchini e che rende il paesaggio vagamente lunare. Non è un caso che la sede del governo della RADS sia a Tindouf, in Algeria, il principale alleato del Fronte Polisario. Un conflitto dimenticato, una terra arida e inospitale divisa in due. Dei circa 600.000 sahrawi circa 200.000 risiedono nella zona controllata dal Marocco. Altri 200.000 vivono in Algeria, la maggior parte dei quali ammassati nei campi rifugiati di Tindouf, a pochi chilometri da un confine invisibile. Il resto è parte di una diaspora principalmente distribuita tra Marocco, Mauritania, Francia e Spagna.
Un popolo diviso. Nel mezzo il berm, nel mezzo anche le Nazioni Unite. Perchè la Missione delle Nazioni Unite per il Referendum del Western Sahara (MINURSO) è il cuscinetto della buffer zone. Ma anche perchè le Nazioni Unite sono rimaste impantanate in una situazione che è diventata il simbolo dell’inefficienza della diplomazia. La missione viene rinnovata periodicamente, mentre la soluzione sembra progressivamente affondare tra le sabbie del deserto. Con quella parola nell’acronimo della missione, referendum, che oramai sembra un progetto irrealizzabile. Infatti, dopo il fallimento del piano Baker, nei primi anni duemila, l’idea dell’indipendenza del Sahara Occidentale dal Marocco è andata vieppiù perdendo posizioni. Si è andata lentamente affermando la proposta avanzata nel 2007 da Rabat di una forma di autonomia della regione sul modello spagnolo, conosciuta anche come Western Sahara Autonomy Proposal. Sebbene i membri del governo in esilio di Tindouf l’abbiano da sempre ritenuta inaccettabile e contraria al diritto all’autodeterminazione del popolo sahrawi, la proposta ha incontrato il favore più o meno manifesto di due attori chiave come Stati Uniti e Francia.
Del resto, il lungo intervallo intercorso dalla firma del cessate il fuoco ha modificato lo status quo per una serie di variabili endogene ed esogene al conflitto. Il Marocco governa le province occupate del Sahara Occidentale come se fossero a tutti gli effetti parte integrante dello territorio nazionale. Nel corso degli anni, decine di migliaia di marocchini si sono trasferiti a El Aaiún – la capitale di fatto della regione – e a Dakhla. Vi sono oramai interi nuclei familiari di marocchini che lì hanno costruito le proprie vite, migliaia di ragazzi e ragazze sono nati nel Sahara Occidentale. Inoltre, l’occupazione delle zone costiere e più produttive ha regalato al Marocco un importante primato nell’esportazione di fosfati e risorse ittiche. Parallelamente, Rabat ha avviato un massiccio piano di investimenti in quelle definite come le “regioni meridionali” che ha iniziato ad intaccare anche il fronte sahrawi. Parte della popolazione autoctona – etichettata dal Fronte Polisario come una piccola minoranza non rappresentativa del popolo sahrawi – ha inevitabilmente beneficiato del recente sviluppo socio-economico. Il Marocco, inoltre, dispone di un esercito moderno e di un arsenale all’avanguardia, mentre il Fronte Polisario ha a disposizione vecchi armamenti rimasti dall’epoca della guerra e un limitato numero di miliziani che, per quanto motivati, non possono seriamente pensare o sperare di ribaltare militarmente la situazione.
Vi sono poi i fattori esterni, il contesto geo-politico che muta. Il Marocco oggi è il paese più stabile del Maghreb e dell’intero Nord Africa, alleato di riferimento della comunità internazionale, in particolare dell’Europa e degli Stati Uniti, nella lotta al terrorismo, mentre il Fronte Polisario ha dovuto periodicamente respingere le accuse di sostegno alla causa jihadista. Il Marocco è inoltre un interlocutore strategico in materia migratoria, come paese sia di provenienza che di transito. Ancora, Rabat è partner economico dell’Unione Europea, la quale sembra sempre più disposta a dimenticare alcune implicazioni del conflitto, come testimoniato dal recente protocollo in tema di pesca sottoscritto tra il Marocco e la Commissione Europea nel luglio 2018, e che estende la propria applicazione anche alle zone del Sahara Occidentale ad ovest della berm.
Il Fronte Polisario punta ancora tutte le sue carte sulla pronuncia della Corte Internazionale di Giustizia di oltre 40 anni fa, che sancì il diritto all’autodeterminazione del popolo sahrawi.
Il Polisario sta così assistendo alla progressiva erosione delle speranze di ottenere una piena indipendenza dei territori del Sahara Occidentale. Attualmente, solo 46 paesi membri delle Nazioni Unite riconoscono la legittimità politica della Repubblica Democratica Araba dei Sahrawi, mentre ben 38 membri che avevano in passato riconosciuto lo status della RADS hanno congelato o ritirato, a partire dal 1991, tale riconoscimento. Tra questi, 12 paesi africani come il Madagascar, il Burundi, il Togo, il Congo e il Burkina Faso. Sebbene per ragioni molto differenti e in contesti profondamente diversi, è la stessa dinamica che nel corso degli anni ha eroso il sostegno internazionale alle istanze di Taiwan nei confronti della Repubblica Popolare Cinese.
In quest’ottica può essere letto il ritorno nel 2017 del Marocco nell’Unione Africana (UA), 33 anni dopo lo storico strappo a causa del riconoscimento da parte dell’UA dell’indipendenza della Repubblica Democratica Araba dei Sahrawi. È opinione diffusa che il ritorno di Rabat in seno all’Unione sia dovuto alla relativa sicurezza circa la raggiunta immutabilità dell’attuale status quo.
La pluridecennale presenza del Marocco nell’area, le modifiche della composizione demografica della regione, la sproporzione nei rapporti di forza militare, unitamente al ruolo strategico di Rabat in materia geo-politica e commerciale, fanno sì che sempre più interlocutori considerino, più o meno apertamente, la soluzione di un Sahara Occidentale all’interno della sovranità marocchina come unica ipotesi davvero percorribile. Perché una soluzione al conflitto va indubbiamente trovata. Secondo gli ultimi dati dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), al 31 dicembre 2017 erano oltre 170.000 le persone raccolte nei campi rifugiati nei pressi di Tindouf. Di queste almeno 90.000 vivono in condizioni di profonda vulnerabilità, con il flusso di aiuti internazionali che da anni si va inesorabilmente riducendo, come lamentato da UNHCR, UNICEF e dal Programma Mondiale per l’Alimentazione (WFP). Nei territori occupati dal Marocco, inoltre, al netto del generale miglioramento delle condizioni socio-economiche della popolazione, Nazioni Unite e organismi internazionali come Human Right Watch e Amnesty International continuano a denunciare sistematiche violazioni dei diritti degli attivisti sahrawi, con arresti e persino episodi di tortura.
In altre parole, il diritto all’autodeterminazione del popolo sahrawi si scontra con anni di immobilismo diplomatico, mentre sembra cedere sotto i colpi della realpolitik e delle emergenze umanitarie.
Un ulteriore indicatore del fatto che il governo di Rabat abbia raggiunto una posizione dominante nel conflitto lo si trova proprio nelle grandi città del Marocco, parlando con studenti, professionisti o lavoratori semplici, a Tangeri come a Casablanca. Per la maggior parte di loro il conflitto di fatto non esiste. È un ricordo lontano, risolto oramai da tempo. Rimangono solo echi della grande marcia verde. E così, proseguendo a Casablanca tra le strade che dal mercato di Maarif portano a Gauthier, si arriva al centro a Place des Nations Unies: le Nazioni Unite. E si contempla il fallimento della grande macchina internazionale, mentre a Ginevra, il 5 e il 6 dicembre si è svolto un nuovo incontro tra Marocco, Fronte Polisario, Mauritania e Algeria allo scopo di rilanciare un negoziato su posizioni che continuano a escludersi a vicenda.