La popolazione mondiale è in movimento. Grazie al miglioramento delle infrastrutture per i trasporti e delle tecnologie di comunicazione, il tasso globale delle migrazioni internazionali è andato rapidamente aumentando dall’inizio di questo millennio e si prevede che nel prossimo futuro le migrazioni continueranno ad essere un fenomeno prevalente. Secondo i più recenti dati delle Nazioni Unite sul tema, oggi circa il 3,3% della popolazione mondiale è composta da migranti che vivono al di fuori del proprio paese di origine. Molti di loro cercano migliori opportunità di realizzazione in paesi stranieri spinti da varie ragioni, come le guerre (come nel caso di Siria e Sudan), le rivolte sociali (per esempio in alcuni paesi dell’America Latina), il degrado ambientale e gli spostamenti forzati (per esempio i Rohingya in Myanmar). Tuttavia, il principale fattore che normalmente determina i movimenti di massa resta quello economico, nella misura in cui si va alla ricerca di redditi maggiori e migliori condizioni di lavoro nei paesi di destinazione. Perciò le migrazioni legate alla ricerca di lavoro costituiscono generalmente una parte significativa dei flussi migratori globali in partenza dai paesi di origine, e il principale proposito di questi migranti è quello di guadagnare di più per migliorare le condizioni della propria famiglia.
Normalmente un importante aspetto delle migrazioni è quello legato alle rimesse, ovvero le somme di denaro inviate dai migranti ai loro familiari rimasti nei paesi d’origine; tuttavia molti altri fattori, come le politiche e la governance, possono determinare in che misura le potenzialità delle rimesse si realizzano effettivamente. Va chiarito che, nel campo della ricerca sul tema, le rimesse sono considerate soltanto una delle conseguenze della migrazione. Ce ne possono essere molte altre, sia positive che negative, con effetti profondi sia sui paesi d’origine che su quelli di destinazione, che vanno dall’interesse individuale a quello nazionale. Ho scelto tuttavia concentrare la mia attenzione sulle rimesse piuttosto che sugli altri aspetti, che sono già stati oggetto di studio per decenni. La prima ondata di ricerche si è occupata della motivazione ad effettuare le rimesse, più o meno sulla base degli studi di Oded Stark & David Bloom e di Robert Lucas & Oded Stark, entrambi pubblicati nel 1985. In seguito, la ricerca sulle rimesse è diventata progressivamente più importante per le politiche e le strategie nazionali, in corrispondenza dell’aumento dei flussi migratori e del valore complessivo delle rimesse stesse. In alcuni stati dell’Asia centromeridionale le rimesse rappresentano oggi il 30% del Pil nazionale. Questo significa che per questi paesi l’economia strutturale dipende largamente dall’apporto fornito dalla sua forza lavoro all’estero; se poi questo sia un buon modo di sostenere l’economia nazionale è tutto un altro discorso.
Da un punto di vista demografico, in circostanze normali è meglio che la popolazione adulta lavori localmente per ottimizzare la crescita economica, visto che un’economia in buona salute è sostenuta dalla sua popolazione attiva, che a sua volta alimenta i consumi e paga al governo tasse dirette e indirette, a sostegno di altri programmi e delle politiche pubbliche. Perciò è meglio veder restare in patria soprattutto chi è in possesso di una formazione superiore e di qualità adeguate, alto reddito e capacità innovative. Tuttavia è spesso impossibile trattenerli, vista la situazione particolarmente sfavorevole che i paesi in via di sviluppo devono affrontare, per cui il miglior modo di andare avanti è sfruttare al meglio le rimesse, che non sono di per sé un presupposto di sviluppo economico. In alcuni paesi del sud-est asiatico le rimesse hanno addirittura esacerbato una situazione già compromessa, costringendoli a lunghi periodi di stagnazione economica, dal momento che coloro che sarebbero stati in grado di liberare il paese dalla trappola delle reddito medio (middle-income trap) attraverso l’innovazione e l’avanzamento economico erano stati attratti altrove. Inoltre, i governi di questi paesi non hanno spesso interesse a risolvere le sfide sociali o ad avviare percorsi di riforma, visto che tendono a contare proprio sulla migrazione per affrontare i bassi salari locali, la disoccupazione e la povertà. Di conseguenza, anche quando migliaia di emigrati inviano miliardi di dollari, spesso queste risorse non vengono sfruttate appieno. Al contrario, vengono spesso sottratte ai piani di sviluppo dalla corruzione e da una gestione inadeguata.
Molti potrebbero chiedersi se non stia suggerendo che le rimesse in realtà comportano più problemi che miglioramenti nelle condizioni di vita effettive. Perché mai dovrebbe accadere, se i migranti riescono a guadagnare di più (a volte molto di più) e ad inviare parte del loro reddito ai propri paesi d’origine? È effettivamente una domanda fondata. Purtroppo non sono in grado di dare una risposta definitiva, dal momento che il vivace dibattito tra i ricercatori sugli effetti netti delle rimesse sulle famiglie nei paesi d’origine non ha ancora raggiunto una conclusione. Inoltre, non intendo affermare che le rimesse stiano effettivamente causando ulteriori problemi, ma spiegare attraverso quali meccanismi potrebbero arrivare a farlo. Va notato che non tutti i migranti inviano rimesse alle loro famiglie. Anche se lo fanno marginalmente, nel lungo periodo le rimesse hanno un impatto positivo sulle condizioni delle famiglie rimaste nel paese d’origine, a patto che siano usate in modo appropriato, ad esempio per comprare più terra coltivabile o migliorare le attività agricole, oppure per investimenti in progetti di attività produttive. Così come avviene nella vita di tutti i giorni, il buon senso suggerisce che soltanto grazie a sostanziali risparmi e investimenti la famiglia può sopravvivere a lungo termine, mantenendo la possibilità di maggior benessere in futuro. Tuttavia, non è raro trovare casi in cui le rimesse sono utilizzate per aumentare il consumo di cibo e, nei casi peggiori, quello di alcol.
Va altresì verificato se l’aumento del reddito familiare attraverso le rimesse possa fornire un’assicurazione, mettendo le famiglie in condizione di assumersi i rischi di maggiori investimenti in attività agricole o commerciali che sarebbero altrimenti impraticabili per le famiglie povere. L’idea di massima, che discende da una pubblicazione di Stark e Bloom del 1985, è che l’emigrazione internazionale dai paesi agricoli, specialmente quelli asiatici, è il risultato dell’intenzione delle famiglie di diversificare le fonti di reddito, minimizzando i rischi di un cattivo raccolto. Molte famiglie si comportano in questo modo perché il sistema bancario e quello assicurativo in questi paesi in via di sviluppo spesso impongono dei vincoli di liquidità (solvibilità e limiti sui prestiti) e la loro copertura è limitata ad alcune aree. Pertanto, la migrazione di mano d’opera rappresenta un piano d’emergenza e un’assicurazione per le famiglie intenzionate a non correre rischi. Tuttavia, è anche vero che le rimesse possono aumentare la dipendenza da esse delle famiglie, portandole erroneamente a ritenere che non ci sia ragione di assumersi altri rischi investendo in attività commerciali. D’altro canto, la migrazione è un investimento a basso rischio con alti rendimenti. Perciò, perché non dovrebbero piuttosto investire nella migrazione di ulteriori membri della famiglia?
Che altro aggiungere? Le rimesse possono aumentare la riluttanza dei rimanenti membri della famiglia a inserirsi nel mercato del lavoro innalzando il loro “salario di riserva” (reservation wage), definito come il salario minimo per il quale una persona può essere disposta a lavorare. Per esempio, una persona che, per necessità, sarebbe disposta a lavorare per 100 USD al giorno potrebbe, se supportata economicamente, non farlo finché non le vengano offerti almeno 150 USD. Una simile idea è applicabile all’indennità di disoccupazione o ad altri tipi di previdenza sociale che consentono ad un individuo di restare disoccupato. Tuttavia, l’indennità di disoccupazione prevede soltanto un beneficio temporaneo per chi si trovi fuori dal mercato del lavoro, spesso a causa di periodi di recessione economica, mentre le rimesse possono andare avanti nel lungo termine, portando gli altri adulti della famiglia a credere di poter contare sulle rimesse per vivere, così da rendere superfluo il lavoro.
Ciò detto, sarebbe assolutamente desiderabile che la disponibilità delle rimesse tenesse alcuni membri della famiglia lontani dal mercato del lavoro, quando si tratti di ragazzi in età scolare. Nei paesi in via di sviluppo non è raro trovare bambini costretti a dare una mano agli affari di famiglia o anche ad alcune attività non remunerate, pur di supportare le magre entrate familiari. Grazie alle rimesse, le famiglie possono riuscire a togliere i ragazzi dal mercato del lavoro e mandarli a scuola. Va sottolineato che, sebbene in molti paesi generalmente l’istruzione sia gratuita, molte famiglie indigenti non sono in grado di affrontare i costi ad essa associati, come quello dei libri e delle uniformi. Non solo: spesso le famiglie non sono semplicemente in grado di tenerli a scuola. Perciò, se le rimesse consentissero una maggiore frequenza scolastica, ci si potrebbe ragionevolmente aspettare un effetto positivo sulla crescita economica a lungo termine. Sfortunatamente non è sempre così. Alcune ricerche hanno scoperto che i bambini che vivono in famiglie destinatarie di rimesse non hanno necessariamente un’istruzione superiore a quella delle altre, poiché molte delle famiglie che ricevono le rimesse spesso non progettano di investire nell’educazione dei figli. Perché? Perché credono che l’istruzione superiore non sempre sia premiata. In altre parole, anche se hanno un’istruzione superiore, il loro stipendio potrebbe non essere altrettanto attraente di quello dei lavoratori non specializzati nei paesi di destinazione. Pertanto, quelli che intendono seguire il loro familiare migrante quando saranno diventati adulti rinunceranno completamente all’istruzione. Inoltre, i paesi di destinazione della migrazione in Asia normalmente hanno bisogno di operai piuttosto che di impiegati.
Inoltre, a differenza del reddito salariale o di quello derivante da attività economiche o agricole più durature, le rimesse sono instabili, meno affidabili e facilmente attaccabili, dal momento che la maggior parte dei migranti è poco qualificata e si colloca principalmente al fondo della piramide economica nel paese di destinazione. Durante la crisi finanziaria asiatica del 1997 e quella globale del 2008 alcuni paesi come la Tailandia e la Malesia, che avevano accolto migranti poco qualificati dai paesi limitrofi e inviato i propri lavoratori in paesi più sviluppati, hanno dovuto poi fare spazio ai propri concittadini che erano stati successivamente licenziati e rinviati a casa. Una situazione del genere non è né nuova né rara per l’Asia dove, in caso di depressione economica, i datori di lavoro ricevono disposizioni di licenziare prima i lavoratori migranti e, poi, di assumere i propri concittadini. I migranti saranno poi rimpatriati e diventeranno disoccupati ciclici, finché il paese di destinazione non inizierà a riprendersi. Tuttavia, dopo un periodo di recessione, un’economia può generalmente impiegare molti mesi – o persino anni – prima di ritornare ad un grado di normalità tale da poter reclutare nuovamente lavoratori stranieri. Per questo motivo, a meno che non prendano atto del fatto che non si può fare affidamento esclusivamente sulle rimesse per mantenere un modello di consumo stabile, le famiglie destinatarie delle rimesse continueranno a convivere con la disgrazia di collassi finanziari ciclici, che rappresentano allo stesso tempo una minaccia per l’economia nazionale. In poche parole, le rimesse non dovrebbero in alcun caso essere considerate una via per il raggiungimento di obiettivi di sviluppo economico sostenibile.