Non ci sono foto a completare questo pezzo. Sono diversi anni che durante le visite ai campi profughi siriani (come a Domiz 1 nel maggio 2017) ho deciso di non fotografare le persone che vi abitano. Che vi sopravvivono. Ci sono sufficienti foto di bambini scalzi e vestiti di stracci attaccati alle nere vesti di madri che stancamente si trascinano su strade polverose. Non aggiunge molto, nulla, fotografare quello che ho visto in queste poche ore trascorse tra Khiara ed al-Marj, nella Valle della Bekaa. Che il lettore immagini la povertà, si spinga ad immaginarla con i suoi occhi. A sentirla, se riesce.
Questo articolo nasce nella nebbia di luglio, fra le montagne di Dahr El Baydhar, di ritorno dalla Valle della Bekaa. Nasce in un taxi che procede veloce verso Beirut anche se, almeno per questa volta, non sarà attraverso il consunto cliché del tassista che si illustreranno al lettore i misteri politici, sociali e culturali del Paese. Il lettore si dovrà accontentare della narrazione, delle parole, delle impressioni di una penna virtuale, risultato della battitura dei tasti di un malconcio pc dallo schermo scarsamente illuminato che sobbalza ad ogni curva, accelerazione, frenata, umore meccanico della macchina.
Per il quasi milione di siriani in Libano non è ancora finita. Dopo sette anni. Anzi. Ritornare in Siria non è (ancora) una opzione. Eppure, mentre decine e decine di tende impietose si susseguono una dietro l’altra, tenute ferme da copertoni e spazzatura di vario genere, a ridosso di una trafficatissima strada extraurbana, ci si chiede come si possa resistere, ancora, in queste condizioni. Nello spazio che intercorre fra un intervento umanitario e l’altro, grazie allo straordinario lavoro di UNHCR, sono trascorsi sette anni. Sette anni in cui la vita è andata inevitabilmente avanti. Trascorsi fra una tenda e l’altra, alla mercé di un lavoro malpagato con un pensiero, costante, ai propri cari lasciati in Siria o, peggio, morti. Eppure i siriani, lo conferma Martin Chulov del The Guardian in un recentissimo articolo, non stanno affatto pensando a tornare. Troppa paura, troppa incertezza, timore di ripercussioni. Anzi: continuano ad arrivare.
La pressione sul Libano aumenta. Basta fare un esempio molto pratico: a volte, anche se non sempre, i numeri aiutano. Nell’area di Ghazze, poco dopo Khiar in direzione di Joub Jannine, vive una popolazione di circa 6.000 persone. Per fornire un termine di paragone immediato al lettore: più o meno gli stessi abitanti di una cittadina come Amalfi. Ecco, pensiamo se in una cittadina come Amalfi si riversasse una popolazione di rifugiati che oscilla fra le 15.000 e le 20.000 unità (secondo altre fonti personalmente raccolte in loco grazie ai colleghi della Lebanese International University, non verificabili ma comunque raccolte in questo ultimo viaggio in Libano, siamo ormai giunti a 30.000). Una popolazione che compete con il locale mercato del lavoro (muratori, elettricisti, etc..), che abbassa il costo della manodopera, che occupa terreni piantandovi tende abusive. Un tema di cui si è recentemente occupata anche la Commissione Europea con uno studio ad hoc focalizzato sulla competizione fra lavoratori libanesi e lavoratori siriani proprio in questa particolarissima area geografica.
L’emigrazione dei siriani in quest’area ha seguito una dinamica molto semplice, logica, elementare. Essendo al ridosso del confine con la Siria (siamo a 65 chilometri da Damasco, un’ora di macchina circa), i siriani hanno storicamente trovato impiego come lavoratori stagionali nei campi della Valle della Bekaa, il cui splendore e la cui rigogliosità stridono drammaticamente con la presenza di migliaia di disperati che non hanno altro luogo dove andare. Campi di tabacco, piantagioni di mandorli, i vigneti della tenuta Kefrayah, uliveti e frutteti a perdita d’occhio. Banchi di frutta con enormi zucche e cocomeri attirano i passanti. Si dice che l’area sia famosa per i cetrioli, da cui l’arabo Khiar. Dal 2011 in avanti, i siriani al di là del confine hanno chiamato quanti erano già in quest’area chiedendo ospitalità, facendo leva sui loro contatti, sfruttando le loro conoscenze. In altre parole, i siriani non sono mai stati un corpo estraneo in quest’area poiché da decenni vi hanno trovato lavoro. Eppure oggi potrebbero progressivamente diventarlo poiché non sono più solo degli aiuti stagionali o braccianti a chiamata (anche minori), ma stabili competitori in un mercato che si assottiglia e che non riesce, evidentemente, ad assorbire tutte le richieste.
I siriani più benestanti sono stati in grado di raggiungere Beirut, dove un affitto costa mediamente il doppio rispetto alla Bekaa e dove la vita è decisamente più cara. Gli altri, ultimi fra gli ultimi, si sono accampati qui. Eppure sono già trascorsi sette anni. Eppure di tensioni in quest’area se ne vedono ancora relativamente poche, soprattutto se pensiamo alla pressione demografica: i numeri sono impressionanti. La popolazione locale prova ancora ad aiutare i siriani, a tendere una mano. Quanto possa durare nessuno lo sa e del resto l’esempio delle tensioni di altre aree (penso a Tripoli ed Akkar nel Nord) non può tranquillizzare nessuno.
A Tripoli, infatti, la situazione è ben diversa. I siriani sono stigmatizzati come criminali, attaccabrighe, violenti e generalmente responsabili di qualsiasi problema in città. Secondo la lettura di alcuni libanesi tripolini da me intervistati, è la più bassa estrazione sociale dei siriani emigrati a Tripoli a determinarne l’atteggiamento criminoso. Anche qui non vi sono statistiche e dati certi ed inequivocabili, ma la comune vulgata vuole che addirittura Tripoli sia stato porto di approdo per molti dei criminali fuggiti dalle carceri siriane nei momenti più duri della guerra. In altri casi, mi dicono, è come se i libanesi stessero prendendosi una rivincita nei confronti dei siriani, il cui regime negli anni passati tante sofferenze ha inflitto alla popolazione tripolina attraverso una costante occupazione militare della sua area, conclusasi solo dopo la morte di Hariri nel 2005. Del resto, come dimenticare che la Siria degli al-Asad ha occupato militarmente il Libano dallo scoppio della guerra civile libanese (1975) sino al 2005, ponendolo sotto un protettorato ufficioso e determinando in maniera sostanziale la sua politica interna ed estera? Vecchi rancori che si accumulano su tensioni preesistenti nella città e che derivano anche da altri elementi, come ad esempio la presenza di uno dei maggiori campi profughi palestinesi, quello di Nahr El Bared, o anche le tensioni interne alla cittadinanza locale che negli anni passati hanno più volte dato vita a conflitti civili particolarmente violenti, come testimoniato già nel 2014 da un articolo del Carnegie Endowment for International Peace.
Una folata di vento freddo entra da uno spiffero del finestrino. Siamo ormai giunti a Saoufar ed incredibilmente il termometro del taxi segna 20 gradi. Siamo a luglio, in Libano, ma sono costretto a nascondere il collo sotto il bavero della giacca per ripararmi dal freddo. Alzo gli occhi dallo schermo del pc portatile ed osservo l’incessante susseguirsi di case che ci riaccompagna verso Beirut. Alcune portano ancora i segni della guerra civile. Avrò visto quei fori di proiettile centinaia di volte, su centinaia di palazzi della capitale libanese, cicatrici mai del tutto definitivamente sanate. Del resto, mentre provo a stimolare più di un collega incontrato nei giorni libanesi per strappare qualche aneddoto sulla guerra civile, la risposta è secca: “brutto periodo, preferisco non parlarne”. Quando chiedo della harb al-tammuz (la guerra dei 33 giorni fra Hezbollah ed Israele) molti non rispondono, o emettono solo un lungo fischio di disapprovazione, alzando le mani al cielo e scuotendo la testa. Parlare della guerra civile, dei suoi posti di blocco dove uomini e donne venivano uccisi, sul posto, a freddo, per essere colpevoli di appartenere a questa o quella confessione, è ancora difficile. Impossibile. Un peso di cui nessuno riesce oggi a liberarsi senza accusare l’altro, senza cercare un colpevole. Riconciliazione è una parola che attende ancora di essere scritta. Le pagine del giornalista di guerra Robert Fisk ne sono l’innegabile dimostrazione.
Alle porte di Beirut, proprio sull’altro lato della strada rispetto al Beirut Art Center, una distesa di baracche, questa volta abitate da libanesi, si stende impietosa all’ombra della gigantografia del primo ministro Saad Hariri (figlio dell’ex primo ministro Rafiq Hariri). Perché la povertà, per quanto sia banale dirlo, tocca in maniera trasversale siriani e libanesi, generando una vera e propria guerra fra poveri con crescenti tensioni sociali e che determinano l’acuirsi del dibattito politico. Il che, solitamente, non si traduce solo in un’aspra battaglia parlamentare, ma anche in atti violenti e, dato forse ancora più grave, in un atteggiamento razzista nei confronti dei siriani. La Bekaa regge ancora, mentre altre aree come appunto Tripoli ed Akkar sono sull’orlo di una crisi sociale ed economica.
Fare previsioni in Libano è impossibile. A partire da quelle metereologiche. Degradando verso il mare, ad ogni curva, acquistiamo un grado rispetto a Saoufar. Si capisce di non sapere abbastanza, di essere fondamentalmente impotenti dinanzi alla storia di un Paese che continua a nascondere pieghe e sfumature complessissime da cogliere. Siamo ormai a Beirut, in vista di Zaytonaah Bay, diretti verso il ventre di Hamra. Costeggeremo l’American University of Beirut e i suoi bellissimi edifici e giardini, ritorneremo nel nostro Hotel e poi mangeremo da Mhanna, uno dei migliori ristoranti poco dopo Burj Hammoud, il quartiere armeno. Questo è il Libano e così è sempre stato: una contraddizione dietro l’altra, di fronte all’altra, insieme all’altra.
Nessuno al momento può dare una risposta, una soluzione, a quella bambina scalza che si aggira per le strade di Khiar. Si può solo raccontarne l’incerto andare, il barcollante passo su un terreno dissestato, quella maglietta tenuta fra i denti stretti in un sorriso che disorienta, ma che almeno lascia un ricordo meno amaro di lei, del destino suo e del milione di rifugiati siriani in Libano.