Crisi e contenimento: i rischi di una maggiore governance della migrazione globale
Le crisi offrono un’occasione per riesaminare i principi e le pratiche prevalenti. I risultati di decisioni prese sotto costrizione portano solitamente l’imprinting di negoziatori astuti e dotati di ingenti risorse. Tenendo ciò a mente, questo articolo vuole mettere in guardia contro la formulazione di risposte globali alla migrazione internazionale in un’epoca di paure populiste.
A partire dalla ricerca empirica sulla gestione della migrazione in alcuni paesi di origine e di destinazione dei migranti in Africa e in alcune parti del Medio Oriente (Sud Africa, Kenya, Mozambico, Uganda, Repubblica Democratica del Congo e Pakistan, Libano e Giordania), vorrei attirare l’attenzione su due preoccupazioni principali:
• È altamente improbabile che una riforma della politica migratoria attuata dallo stato possa produrre risultati positivi per i migranti e i cittadini del sud del mondo. Vi sono infatti diffusi dubbi legati al rischio che le attuali proposte finiscano per consolidare condizioni di disuguaglianza globale e interventi esterni, sia militari che economici.
• La definizione di regimi migratori globali costruiti attorno alla netta distinzione tra “rifugiati/migranti forzati” e “migranti volontari” solleva importanti questioni etiche e pratiche. In parte perché queste sono spesso distinzioni empiricamente sfocate, in parte perché sussistono potenziali pericoli e disfunzioni nell’assegnare o sanzionare i diritti delle persone sulla base di decisioni degli stati su storie migratorie individuali.
A questi motivi di preoccupazione può rispondere un approccio intersettoriale che (forse irrealisticamente) si fondi su un approccio decentrato alle categorie di sovranità nazionale e di migrazione.
Contestualizzare l’architettura globale
Alla base dei progetti di “global compacts” e della Convenzione per un modello internazionale di mobilità (Model International Mobility Convention, MICM), vi e l’assunto che gli stati godano di un’effettiva sovranità nazionale e abbiano la capacità di creare regole relative al benessere e al comportamento dei migranti. Eppure, in tutto il sud del mondo, gli spazi che essi formalmente regolamentano sono spesso frammentati socialmente e politicamente. Nelle zone di confine e nelle città in cui la maggior parte dei migranti del mondo cerca (e cercherà) di costruire la propria vita si sovrappongono miriadi di regimi e regolamentazioni, formali e informali, che offrono opportunità in base ad una serie variegata di fattori. La rapida, e spesso non regolamentata, crescita urbana e la maggiore dipendenza dai mercati nell’ambito della “gestione della migrazione”, favoriscono l’ulteriore disconnessione tra le leggi dello stato e la gestione pratica della mobilità.
Sulla base delle mie ricerche in Africa sub-sahariana, lo status legale e la regolarizzazione risultano essere indicatori relativamente inattendibili degli esiti futuri delle migrazioni. Inoltre, lo status di rifugiato riconosciuto dallo stato è un indicatore insufficiente delle concrete esperienze di un individuo o della sua motivazione alla mobilità. Invece, l’accesso a reddito, alloggio e sicurezza fisica definisce in modo più coerente le caratteristiche individuali e le relazioni sociali. Laddove la vulnerabilità è diffusa e le risorse umanitarie sono limitate – come avviene nella maggior parte delle città del sud – sono proprio queste relazioni orizzontali, e non lo status giuridico, che risultano essere di fatto i capisaldi della protezione. Le politiche statali hanno certamente un impatto, ma tra gli standard globali e la loro concreta implementazione la strada è lunga e spesso interrotta. Tuttavia, il dibattito internazionale circa la legislazione su rifugiati e migrazioni e i relativi standard globali in genere rimane formalistico, incentrato sui migranti e ampiamente plasmato da un nazionalismo epistemologico.
Di fronte a queste “brown areas” del sud (aree caratterizzate da bassa presenza di autorità dello stato) non mancheranno appelli ad una migliore attuazione e applicazione della legge. Eppure dobbiamo andar cauti con questi appelli. In primo luogo, la scarsa applicazione e l’inadeguatezza della legge spesso creano quella permeabilità che i migranti utilizzano per negoziare l’integrazione e la protezione di fatto. Pur senza voler fare un ingenuo elogio dell’informalità, le richieste avanzate dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni (IOM) e da altri per garantire “sicurezza e legalità” sono potenzialmente pericolose. Così come negli sforzi per combattere la tratta e la schiavitù, queste campagne rischiano di estendere la regolamentazione e l’azione degli stati con modalità che distruggono i mezzi di sussistenza che i migranti sono riusciti a procurarsi, generando pericolose economie sotterranee che finiscono per danneggiare tutti o quasi. Ciò appare tanto più verosimile se si considera l’attuale tendenza a regimi di mobilità con controlli più rigidi (anche se l’Unione africana e gli altri spingono debolmente per la permeabilità).
Dobbiamo anche guardare con scetticismo all’assunto che le norme internazionali relative ai diritti umani vengono spesso adottate in un contesto nazionale quando vi siano forti interessi locali e internazionali che spingano a farlo. In tutto il sud del mondo non c’è quasi nessuna opinione pubblica interna che si mobiliti a favore dei migranti. Quando gli appelli in difesa dei loro diritti provengono da attori esterni – ONU, USAID, Amnesty International o Human Rights Watch – alimentano facilmente sentimenti nazionalistici che vanno contro gli interessi dei migranti. Ma oggi non sono questi gli interessi prevalenti della comunità internazionale. Invece, cresce sempre più la pressione sui paesi africani e del Medio Oriente perché si impegnino a contenere le migrazioni. Controlli più severi e limitazione del diritto di mobilità sono aspetti della riforma internazionale della mobilità che probabilmente nel sud del mondo troveranno un diffuso sostegno interno. In questo caso, la “credibilità internazionale di un paese e la sua statura morale” potranno essere rafforzate proprio grazie a iniziative che ostacolano i poveri che desiderano emigrare.
Infine, le strategie contemporanee per favorire una governance globale della migrazione comportano l’adesione ai principi di Westfalia circa il controllo degli ingressi, che diviene in effetti il presupposto su cui si basa l’accettazione politica di qualunque strategia migratoria globale. Come sottolineano Achiume (2018; 2017) ed altri (vedi Sassen 2010; Bauman 2016), ciò rafforza modelli già esistenti di disuguaglianza globale attraverso sistemi avanzati e costosi di registrazione, coercizione, deportazione e confinamento della popolazione. Così facendo si opera anche una rimozione delle origini di questa disuguaglianza globale – imperialismo, colonialismo, sfruttamento, interventi armati, degrado ambientale – e di conflitti di cui i paesi ricchi portano enormi responsabilità (Achiume 2018; 2017). La maggior parte delle persone non emigrerà, ma ci vuole una notevole disinvoltura etica per escludere i migranti dall’accesso a quella ricchezza che proprio i loro paesi e comunità di origine hanno contribuito a costruire. Fino a quando gli stati non faranno seriamente i conti con il loro ruolo nelle ingiustizie passate e attuali, la normalizzazione della mobilità verso le metropoli globali sarà tanto eticamente imperativa quanto politicamente sgradevole. (Le strategie che sostengono “aiutiamoli a casa loro” sono tentativi cinici per promuovere lo “sviluppo del contenimento”). Può sembrare quasi una scelta obbligata, ma concedere agli stati il diritto di limitare fortemente i movimenti cronicizza gli effetti della disuguaglianza globale.
La gestione della mobilità come dilemma categorico
Vorrei anche riflettere sui rischi della politica migratoria tout court, usata come strumento per gestire la mobilità delle persone. Le attuali strategie di regolamentazione della mobilità etichettano le persone in modi che sono eticamente discutibili e problematici dal punto di vista pratico. Per esempio, il MIMC rafforza il diritto di esclusione esercitato dagli stati. Inoltre, assegna i diritti sulla base di una storia migratoria giudicata ed etichettata dallo stato, in cui ai migranti forzati sono concessi più tutele e sostegno rispetto a quelli ritenuti migranti volontari. Un’etica di protezione può aprire spazi a pochi e incentiva gli stati ad alzare l’asticella per concedere l’asilo. Questo favorisce esclusioni in massa, sfruttamento e corruzione (vedi Wellman e Landau 2015) e comporta che le persone esibiscano la loro vulnerabilità in modi che sono profondamente problematici (vedi Ticktin 2011, Fassin 2013). Inoltre, nel caso in cui le comunità ospitanti siano disperatamente povere, decidere che il riconoscimento dei diritti dei migranti debba essere basato su storie di sofferenza finisce per metterli in competizione diretta con altre popolazioni storicamente altrettanto vulnerabili. Questo, come abbiamo visto nel caso dell’Africa, li rende un facile capro espiatorio politico.
Strategie più efficaci per promuovere la mobilità, nell’interesse sia dei migranti che dei paesi ospitanti, possono verosimilmente derivare da un intervento globale e da politiche e regimi che integrino varie forme di mobilità, sia interne che globali. Nell’ambito dell’Obiettivo di sviluppo sostenibile no. 11, ai paesi viene affidato il compito di “rendere le città e gli insediamenti umani inclusivi, sicuri, resilienti e sostenibili”. Un’iniziativa in corso di Cities Alliance mira ad integrare i migranti di tutte le categorie in iniziative di sviluppo più ampie, aiutandoli a rimanere “invisibili” e a diventare parte di un più ampio tessuto urbano. Laddove gli aiuti, l’assistenza o stanziamenti di bilancio siano legati alla promozione dell’inclusione di migranti, poveri urbani e altri gruppi potenzialmente vulnerabili, i politici e i leader locali possono trovare una valida ragione per accogliere, piuttosto che escludere, i nuovi arrivati.
Intersezioni e raccomandazioni
C’è una profonda ironia nel fatto che in questa era di contenimento di massa le possibilità di favorire la cooperazione multilaterale e l’applicazione di regimi di governance delle migrazioni potrebbero essere più concrete che mai. Sono i paesi ricchi occidentali e i loro attivisti che stanno orientando e influenzando questo programma – in particolare attraverso i “global compacts”, ma anche con varie forme di cooperazione interregionale – e lo modelleranno secondo i propri interessi. Data la transizione globale verso forme di contenimento e distinzione tra categorie di migranti, molti stati “del sud” (particolarmente in Africa) aderiranno con buona probabilità a iniziative concepite altrove. È indicativa a questo proposito la prontezza con cui hanno adottato in modo quasi acritico le politiche dell’IOM o le iniziative della UE che di fatto snaturano i movimenti migratori. Tuttavia, anche se tutto ciò potrà portare ad un regime globale più integrato, si finirà non solo per perpetuare le disuguaglianze storiche, ma anche per normalizzare forme di sovranità nazionale rigide e brutali.
Quindi, date le circostanze, che cosa si dovrebbe fare per promuovere un sistema di governance globale della migrazione politicamente sostenibile e al tempo stesso umano? Non esiste una soluzione semplice. Un buon inizio sarebbe quello di affrontare la legislazione e l’agenda globale con umiltà e riconoscendo le contraddizioni delle politiche locali. A questo proposito, propongo una sorta di pedagogia popolare: imparare da coloro che trovano i modi di emigrare con successo pur tra precarietà e differenze, prima di intervenire o proporre iniziative globali. Ciò richiederà un approccio molto più sociale, molto più politico e molto più attento al contesto territoriale.
Inoltre, dobbiamo essere profondamente consapevoli dello spazio specifico dei migranti nella politica interna. Questi non sono cittadini i cui diritti e il cui benessere siano ampiamente riconosciuti e tutelati dall’opinione pubblica nazionale. In effetti, l’invisibilità è spesso la loro migliore protezione. Oltre a ciò, dovremmo fare tesoro delle parole di Ford: “i diritti richiedono un rapporto di rispetto e obbligo reciproco…” (Ford 2011: 68). La domanda diventa allora come possono le norme internazionali riuscire a creare il tipo di solidarietà a livello locale che possa favorire l’accesso ai diritti senza limitare le libertà dei rifugiati o farne dei bersagli umani?
Suggerisco di lavorare in direzione di modelli di politica e leggi complementari, permeate da una consapevolezza dei contesti territoriali e sociali delle violazioni dei diritti e del potenziale per l’empowerment. In termini di iniziative umanitarie e giuridiche, sono tre i principi che possono guidare questo sforzo. Il primo è la governance della migrazione invisibile. Data la vulnerabilità che può derivare dal rendere visibili i rifugiati e confinarli all’interno di spazi di contenzione, è necessario presentare gli interventi con un linguaggio più flessibile e solidale con le popolazioni non migranti; trovare modi per incoraggiare un percorso di ritorno verso diritti e solidarietà, col sostegno di una vasta gamma di attori locali legittimati, che abbiano il potere di determinare cambiamenti positivi. Cities Alliance è una di queste iniziative.
Uno dei primi passi per realizzare una forma di “umanitarismo invisibile” è lo sviluppo di un’architettura globale focalizzata sui luoghi più che sulle persone. Scrivendo in un contesto diverso, Soysal (1996) fa notare che “… lo stato-nazione, inteso come entità territoriale, non è più la fonte di legittimazione per i diritti individuali.” Riconoscendo la variabilità delle dimensioni, delle forme di solidarietà, dei rischi e delle opportunità dei luoghi in cui i migranti vivono, le analisi e gli interventi dovrebbero iniziare proprio migliorando la qualità della vita in quei luoghi. Ciò significa cogliere ogni opportunità di integrazione, che sia per vie burocratiche o fai-da-te, in cui i migranti ottengano l’accesso ai servizi non tanto sulla base di diritti giuridicamente sanciti, ma piuttosto appellandosi all’etica professionale dei funzionari pubblici o a generali valori comunitari o a interessi personali (vedi Marrow 2009). Anzi, richiamarsi non ai diritti bensì a interessi più generali della comunità, quali gli alloggi, la criminalità o preoccupazioni di altra natura può creare maggiori incentivi alle autorità politiche locali, evitando di tracciare linee di demarcazione o proporre discorsi vissuti come estranei, minacciosi o sgraditi. In tutti i casi, ciò richiede un alto livello di alfabetizzazione e di coscienza a livello locale, che consenta di inquadrare le proposte politiche nell’ambito di legittimi interessi locali. Impegnarsi nella regolamentazione giuridica del territorio attraverso politiche degli alloggi e del mercato del lavoro o il mantenimento dell’ordine pubblico può offrire ai rifugiati l’opportunità di costruire le proprie vite (cioè ottenere di fatto protezione e sicurezza) senza essere confinati a quel territorio né alienati dalla comunità che li circonda. Gli interventi, legali o meno, che migliorano le condizioni di vita nelle aree interessate dal problema dei rifugiati potrebbero contribuire anche a costruire un consenso politico per la loro presenza.
Questo non è un periodo propizio per costruire una politica migratoria umana e pragmatica. Tuttavia, rispetto alla spinta a politiche di contenimento, un prudente approccio “indiretto” può almeno mitigare i rischi per i migranti, per chi li accoglie e per coloro che rimangono indietro.