L’emigrazione è un fenomeno antico quanto la civiltà stessa. Sin dalle loro origini gli esseri umani sono emigrati da una regione all’altra per differenti motivi, come la ricerca di territori migliori per la caccia, la coltivazione e la sopravvivenza; e poi, in tempi più moderni, spinti dalla ricerca di miglioramenti economici, pace o asilo politico. La realtà è che le persone emigrano spinte da un essenziale istinto di sopravvivenza.
A Cuba, della cui emigrazione ci occuperemo qui, il movimento degli abitanti verso l’estero è un fenomeno relativamente recente, tenendo conto che l’isola è uno dei paesi più vecchi del continente americano; e tuttavia, l’emigrazione riveste grandissima rilevanza per i responsabili politici e gli indicatori sociali e, più in generale, per il benessere delle famiglie.
Il fenomeno migratorio, che divenne molto più intenso dopo la rivoluzione di Fidel Castro nel 1959, può essere suddiviso, per una migliore comprensione, in tre periodi principali: (i) 1959 – 1995, (ii) 1995 – 2015 e (iii) dal 2016 ad oggi. Questo articolo si propone di illustrare in modo molto sintetico gli aspetti più rilevanti di questi tre periodi relativamente all’emigrazione dei cubani all’estero, principalmente verso gli Stati Uniti. L’emigrazione cubana verso altre destinazioni come Spagna, Francia e Canada non viene qui presa in considerazione, in quanto ritenuta poco rappresentativa.
La rivoluzione socialista a Cuba – la prima del suo genere in America – e l’arrivo al potere di Fidel Castro nel 1959 suscitarono numerose reazioni interne al paese e nella regione. La rivoluzione cubana, chiamata ad eliminare le ingiustizie del regime del dittatore Batista e consegnarne i responsabili alla giustizia, riscuoteva il pieno sostegno del popolo cubano per il nuovo leader rivoluzionario e il suo gruppo di rivoltosi. Tuttavia, le idee socialiste e la redistribuzione di terre e ricchezze, le nazionalizzazioni e i processi sommari dei responsabili di crimini durante il precedente regime generarono un massiccio esodo di cittadini verso altre destinazioni come Messico, Spagna, Italia, Venezuela e, principalmente, verso gli Stati Uniti.
Durante i primi tre anni della rivoluzione, un totale di 248.000 cubani (Fonte: Washington, DC: DHS Office of Immigration and Statistics, 2015) lasciò il paese per non farvi più ritorno. Tra loro c’erano innumerevoli criminali di guerra e collaboratori del dittatore Fulgencio Batista, che riuscirono a trovare asilo negli Stati Uniti prima di venire giudicati e condannati a Cuba per i loro crimini. Ma anche molti altri cubani, appartenenti per lo più alla classe medio-alta, scelsero di emigrare verso nord spinti da paure infondate e o dall’avversione per il nuovo sistema socialista.
È importante sottolineare come le continue campagne sovversive degli agenti della CIA in quegli anni abbiano incoraggiato le persone a lasciare il paese col pretesto di salvaguardare la loro sicurezza di fronte ai possibili abusi di un regime comunista. Una delle più note campagne di questo tipo, che ingrossò considerevolmente le fila degli emigranti cubani negli Stati Uniti, è stata l’operazione denominata “Peter Pan”, con la quale oltre 14.000 bambini cubani furono inviati senza familiari negli Stati Uniti con la scusa di improbabili abusi del governo cubano ai loro danni.
Una seconda ondata di emigrazione ebbe luogo grazie ai cosiddetti “voli della libertà” (Freedom Flights) tra il 1965 e il 1973, con i quali oltre 260.000 cubani si trasferirono negli Stati Uniti, questa volta in virtù di un accordo reciproco tra i governi di Washington e L’Avana. In quel periodo la composizione degli emigranti era ben diversa da quella dei primi anni, e comprendeva principalmente persone in possesso di alte qualifiche professionali e semi-professionali, nonché i proprietari di piccole e medie imprese private dell’isola. In quell’epoca venne approvata e promulgata, su richiesta delle lobby cubano-americane nel Congresso degli Stati Uniti, la tristemente nota Legge di adeguamento cubano, che stabiliva che tutti i cubani, dopo aver soggiornato per almeno un anno nel territorio degli Stati Uniti, potevano ottenere la residenza permanente.
Nel 1980 ci fu l’incidente diplomatico nell’ambasciata del Perù a L’Avana, con l’irruzione illegale nella sede diplomatica di oltre 10.000 cubani che chiedevano asilo politico. Il risalto fortemente negativo dato dagli Stati Uniti a quegli avvenimenti portò alla risposta cubana nota come l’esodo di Mariel, con cui Cuba consentì ai suoi cittadini che volessero espatriare di imbarcarsi da quel porto, con l’aiuto dei parenti già emigrati in America. Si verificò così all’inizio degli anni ottanta un flusso di oltre 120.000 cubani diretti verso Key West, in Florida. Negli anni successivi, l’emigrazione di cubani verso l’estero è stata piuttosto controllata ed è diminuita rispetto agli anni precedenti, anche in conseguenza dell’accordo raggiunto tra i due paesi nel 1984, che consentiva la migrazione legale e regolamentata di 20.000 cubani all’anno. Questi sono considerati come gli anni d’oro dell’economia cubana, durante i quali il paese ha fatto registrare eccezionali sviluppi degli indicatori sociali, collocandosi tra i primi paesi al mondo in relazione all’indice di sviluppo umano. Tuttavia, nel blocco socialista già si intravedevano i segni della crisi che all’inizio degli anni ’90 è culminata nello sgretolamento dell’Unione Sovietica, il più importante alleato politico ed economico di Cuba.
Di fronte all’imminente crisi economica degli anni ’90 e all’intensificarsi del blocco USA – embargo economico, commerciale e finanziario in vigore dal 1962 – contro Cuba, le tensioni sociali sono salite alle stelle e hanno raggiunto il picco con la cosiddetta “crisi dei balseros” del 1994. Circa 30.000 cubani hanno lasciato l’isola tra il 1994 e il 1995, utilizzando piccole imbarcazioni di fortuna dirette verso nord, alla ricerca di un approdo nelle Isole Keys in Florida e sulle spiagge di Miami. Si trattava di una traversata molto pericolosa per via delle precarie condizioni delle barche, dell’inesperienza di chi le conduceva e delle condizioni tempestose del Golfo del Messico. Si stima che oltre seimila persone abbiano perso la vita in quell’ondata migratoria. Questo è stato uno dei motivi fondamentali che ha portato ad nuovo ciclo di negoziati tra il governo di Bill Clinton e L’Avana.
Come risultato di questi negoziati, è stato rilanciato il programma del 1984 che prevedeva 20.000 emigranti l’anno, ed è stata anche approvata e promulgata dagli USA la cosiddetta politica dei “piedi asciutti-piedi bagnati”, che stabiliva che i cubani intercettati in alto mare dovessero essere riconsegnati alle autorità dell’Avana, ma garantiva allo stesso tempo la concessione del diritto di asilo e la residenza permanente negli USA a quelli che fossero riusciti a mettere piede sul suolo americano. Politica quest’ultima unica nel suo genere e molto contraddittoria nei risultati, in quanto cercava formalmente di ridurre e regolare le partenze illegali dei cubani dall’isola, mentre in pratica costituiva un incentivo per andarsene, rischiando la vita per approdare negli Stati Uniti. Per chiarire, i cubani che ogni anno emigrano negli Stati Uniti non rappresentano nemmeno la metà del numero totale di messicani che – da molto prima del 1959 – fanno lo stesso; e tuttavia non esiste alcuna “legge di adeguamento” per i messicani, come non esiste per i salvadoregni, i guatemaltechi, gli honduregni, i venezuelani o gli ecuadoriani che cercano di vivere il sogno americano.
Il periodo compreso tra gli anni 1995 e 2015 è considerato da molti esperti come il più significativo per l’emigrazione cubana. Più di 650.000 cubani hanno deciso di emigrare negli Stati Uniti attraverso i canali legali (i 20.000 visti concessi come parte degli accordi migratori tra i due paesi) e le rotte illegali, principalmente utilizzando imbarcazioni di fortuna o attraverso altri paesi come il Messico e il Canada.
In questi venti anni la composizione degli emigranti cambia radicalmente rispetto al livello di preparazione professionale. Questa volta ci sono molti più emigranti appartenenti alla classe media e persone con bassi livelli di professionalità che provengono fondamentalmente dal settore dei servizi. Anche quando Cuba ha iniziato a mostrare segni di ripresa economica e diversi indicatori sociali sono migliorati rispetto agli anni ’90 (ma non rispetto agli anni ’80) la gente ha continuato a farsi tentare dalle facilitazioni offerte dalle politiche degli USA verso Cuba.
Sull’isola altri fattori di natura locale hanno contribuito al boom del numero di persone che hanno lasciato il paese. In primo luogo, l’impatto della crisi economica globale esplosa tra il 2009 e il 2010, che ha avuto conseguenze significative sulla vita quotidiana dei cubani per effetto dell’inevitabile contrazione della produzione nazionale e dell’incapacità del paese di risolvere rapidamente il fenomeno. Ha influito anche l’adozione di nuovi regolamenti su viaggi ed emigrazione, in base ai quali per la prima volta i cittadini residenti erano autorizzati a lasciare il paese senza alcun tipo di permesso speciale da parte delle autorità ma semplicemente grazie al possesso di un passaporto personale. Negli anni precedenti i cittadini residenti dovevano procurarsi una serie di autorizzazioni come la cosiddetta “tarjeta blanca” per potersi recare all’estero, anche se per motivi ufficiali; ciò creava notevoli difficoltà e riduceva sostanzialmente il numero di cubani che avevano reali possibilità di viaggiare. Infine, le nuove leggi su abitazioni e autoveicoli, che permettevano ai cubani di effettuare operazioni di compravendita in modo legale e rapido, hanno reso possibile ottenere il capitale necessario per acquistare i biglietti, viaggiare e anche iniziare nuove vite in altri paesi.
In anni più recenti, una volta ripristinate le relazioni diplomatiche e iniziato il processo di normalizzazione delle relazioni bilaterali con gli Stati Uniti sotto i governi di Barack Obama e Raúl Castro, le cifre dell’emigrazione cubana hanno raggiunto picchi considerevoli, pari a 31.000 unità nel 2015 e 38.000 nel 2016. La nuova fase delle relazioni bilaterali è stata però considerata da una parte dei cubani come una minaccia allo status quo esistente tra i due paesi. Ed è così che all’inizio del 2016 l’amministrazione Obama ha finalmente deciso di sospendere l’applicazione della politica dei “piedi bagnati, piedi asciutti”, lasciando senza speranza quei cubani che intendevano emigrare e molti altri che si trovavano in paesi terzi al fine di trasferirsi negli Stati Uniti. Decisione molto criticata dai possibili emigranti, ma che innegabilmente ha contribuito a mettere ordine e a rendere l’emigrazione molto più sicura.
La nuova amministrazione della Casa Bianca non ha mostrato alcun segno che indichi l’intenzione di invertire la rotta. Una degli aspetti più plateali della politica del presidente Trump è stata la costante condanna dell’emigrazione verso gli USA, e anche se ciò potrebbe generare qualche dissidio con i cubani che vivono nel paese, questo punto non sembra essere negoziabile, secondo il nuovo titolare delle politiche verso Cuba, il senatore Marco Rubio, che d’altra parte ha avuto il via libera presidenziale per fare e disfare a suo piacimento per tutto quanto riguarda l’isola caraibica. La realtà visibile oggi a Cuba è che non sussistono più le stesse ragioni di qualche anno fa per emigrare. La promozione del settore privato, l’attuazione di un piano di sviluppo nazionale in un’ottica di medio periodo, l’ampia libertà di viaggiare per chi ha reddito sufficiente e le nuove, anche se non particolarmente consistenti, opportunità che si creano di giorno in giorno nella Cuba del ventunesimo secolo, hanno parzialmente modificato il modo in cui i cubani guardano all’emigrazione. I più giovani oggi si pongono l’obiettivo di cercare fortuna nel proprio paese, almeno per due o tre anni, prima di imbarcarsi nell’impresa di lasciare l’isola. Questo aspetto psicologico è di vitale importanza se teniamo conto del fatto che per Cuba – un paese invecchiato e che invecchia ogni anno di più – è di vitale importanza mantenere ed offrire occupazione alla maggioranza della popolazione giovane, che d’altra parte non è molto numerosa. Le ragioni dell’emigrazione, che un tempo erano legate a divergenze politiche e a paure infondate, sono oggi altre, quasi totalmente apolitiche, principalmente connesse a motivazioni economiche tipiche dei paesi in via di sviluppo. L’evoluzione futura dei movimenti migratori è incerta, ma chiaramente dipenderà fondamentalmente dalla capacità di Cuba di generare incentivi sufficienti a trattenere i suoi giovani nel paese, così come dal modo in cui i governi di Washington e L’Avana riusciranno a gestire le loro divergenze.