Brasile Opinioni

Per cosa lottava Marielle Franco?

Apollo Simone

I tredici colpi di arma da fuoco che lo scorso 14 marzo qualcuno ha fatto esplodere nella Rua Joaquim Palhares, al centro di Rio de Janeiro, hanno impedito che Marielle Franco potesse proseguire il suo percorso politico fatto di lotte per i diritti civili e di denunce. Nell’istante in cui il fragore degli spari ha spazzato la strada, quel qualcuno ha tolto la voce, nel modo più brutale possibile, alla giovane consigliera municipale di Rio de Janeiro, facendo tuttavia alzare altri milioni di voci in Brasile e in giro per il mondo. Forse le stesse persone che hanno “tolto di mezzo” Marielle Franco, non si aspettavano così tanto clamore.
Si è letto di tutto su questa vicenda. In tanti hanno sottolineato il fatto che Marielle Franco stesse denunciando la scia di abusi perpetrati ai danni degli abitanti delle favelas di Rio de Janeiro. Il clima di violenza che permea la città brasiliana, si è in effetti inasprito dopo il febbraio scorso, quando il presidente Temer ha deciso l’intervento delle forze armate. Di fatto, la lotta al crimine organizzato si è tradotta nel delegare alle forze armate alcune funzioni di ordine pubblico e contrasto all’illegalità sul territorio. Tali funzioni, secondo l’ordinamento brasiliano, competono ai singoli stati della federazione: si è assistito, perciò, ad una strategia diversa e ad una forma di “occupazione” del territorio basata su metodi lontani dalle politiche di pacificazione intraprese negli anni scorsi che, seppur con alcuni limiti, hanno dato risultati positivi. In un paese uscito dalla dittatura militare negli anni Ottanta questa scelta rischia anche di riempirsi di altri significati.
Oltre ad evidenziare l’inefficacia dell’intervento dell’esercito Marielle Franco, in qualità di vereadora (consigliera municipale), si era soffermata in particolare su un episodio: l’uccisione di alcuni giovani del quartiere di Acari, estrema periferia nord della città. Uno di quei luoghi in cui nessun turista alla ricerca delle bellezze di Rio de Janeiro metterà mai piede.
Sui drammatici fatti di marzo ci sono indagini in corso e non è questa la sede per approfondirli.

L’obiettivo è un altro. Ho usato più volte le parole “lotta” e “denuncia” e gli stessi termini sono stati adoperati in modo ridondante dagli organi di informazione. In pochi, però, hanno cercato di approfondire veramente ciò che Marielle stava denunciando e quello per cui stava lottando. Credo sia utile farlo, per evitare di muoversi a tentoni e ragionare sulla base di slogan preconfezionati.
Laureatasi in sociologia presso la Pontifícia Universidade Católica do Rio de Janeiro (uno dei migliori atenei brasiliani), specializzatasi in amministrazione pubblica presso la Universidade Federal Fluminense, nata e cresciuta a Maré, il più grande complesso di favelas della città, nell’ottobre del 2016 Marielle Franco è stata eletta consigliera nella Câmara Municipal di Rio de Janeiro. Con 46.502 preferenze ottenute, è risultata la seconda donna più votata della tornata elettorale, la quinta candidatura con più voti in assoluto e la prima del suo partito, il PSOL (Partido Socialismo e Liberdade).
Grazie al suo impegno, durante l’anno e mezzo in cui ha fatto parte dell’organo legislativo comunale sono stati presentati diversi progetti di legge (alcuni anche approvati nonostante il suo partito si trovi all’opposizione) e sono state avviate e realizzate numerose campagne di mobilitazione. Tutto il lavoro di Marielle si è concentrato su alcuni temi: favela, popolazione nera, donne, maternità e salute. Questioni che spesso si sovrappongono e sono molto dibattute in Brasile e ancor di più in una città come Rio de Janeiro.
Quando perciò si parla di “lotte” e di “denunce”, occorre avvicinarsi a questa realtà, comprenderla ed evidenziare che non si è trattato delle proteste ideologizzate di una militante. Marielle denunciava situazioni inaccettabili e profondamente reali, ha lottato – nella sua veste politica – per coloro che subivano dei soprusi perché potessero vedere rispettati i diritti sanciti dalla Costituzione. In troppi, nei bar e sui social media, hanno infangato e insultato la figura di Marielle, riducendo il tutto a una (disgustosa) falsità: “Marielle defendia os bandidos” (“Marielle difendeva i banditi”). Per molti, in Brasile, vale l’equazione favelado uguale a bandito. Escludendo l’inevitabile percentuale di idiozia, che porta alla convinzione che milioni di persone siano criminali a causa della loro condizione socio-abitativa, probabilmente molti individui difettano di empatia o non hanno affatto idea della situazione in cui una gran fetta di popolazione carioca si trova a vivere.
E questo è solo uno dei lati della medaglia.
Dall’altro esiste la tendenza, ampiamente diffusa fuori dal Brasile, a stereotipare l’immagine della favela. Secondo tale visione, è il concentrato di ogni male, il luogo in cui le istituzioni non investono in alcun modo e chi ha la sfortuna di viverci è del tutto abbandonato a se stesso e incapace di costruire il proprio futuro. Nonostante la gravità dei problemi tipici degli slum, quest’immagine è distorta e può addirittura essere dannosa.

Il Complêxo do Alemão a Rio de Janeiro (Foto: Simone Apollo – www.dentroriodejaneiro.it)

Le favelas di Rio de Janeiro sono anche luoghi ricchi di memoria, identità e progettazione, dove nascono e si sviluppano idee, movimenti artistici e socio-culturali. Purtroppo, portano con sé una serie di stereotipi sia in Brasile sia oltre confine.
Marielle lottava per chi vive nelle favelas. A Rio de Janeiro sono censiti circa 1.000 aglomerados subnormais. Secondo alcuni studi della prefeitura (il Comune), il 23% della popolazione è residente nelle comunidades, normalmente conosciute come “favelas”, appunto. Le favelas sono dislocate per lo più nella zona nord e nella zona ovest della città, le meno abbienti. Va considerato, inoltre, che il confine che separa un quartiere povero da una comunidade è spesso difficile da riconoscere e che molti dei problemi di inclusione sociale tipici della popolazione residente in favela sono vissuti anche da chi vive in una zona “regolare”. Invece, le circa trenta favelas della zona più ricca di Rio, la zona sud, sono separate sia fisicamente sia idealmente dal resto della città, attraverso quella linea di demarcazione tra morro (le montagne, dove si arrampicano le favelas) e asfalto (le strade dei quartieri benestanti) che nessuno vede ma tutti conoscono. Sebbene ogni giorno centinaia di migliaia di persone escano dalle comunità in cui vivono per andare a lavorare o per motivi di svago, questa linea spesso è difficile da valicare ed esistono parecchie resistenze al dialogo e all’incontro. È un dato di fatto che moltissimi abitanti di Rio de Janeiro, pur risiedendo accanto agli slum, non vi hanno mai messo piede.
In generale, per le favelas brasiliane vale quanto diagnosticato da UN-HABITAT: inadeguatezza dell’accesso all’acqua e ai servizi igienici e fognari, sovraffollamento e qualità dell’edilizia molto bassa, problemi per il riconoscimento della proprietà delle abitazioni e dei terreni, carenza di servizi pubblici.
C’è poi il discorso, tipicamente carioca, del narcotraffico: i clan che si contendono il commercio della droga a Rio de Janeiro hanno le loro basi operative nelle favelas. Gli abitanti si trovano stretti tra la morsa delle organizzazioni criminali e quella delle forze dell’ordine. Questa situazione genera inevitabilmente attriti e violenza.
Come per le altre metropoli latinoamericane, anche a Rio si potrebbe applicare il concetto di cidade escassa (“città scarsa”). È la definizione che la sociologa brasiliana Maria Alice Rezende de Carvalho propone per la situazione in cui si trovano città come Rio de Janeiro: una metropoli cresciuta a dismisura in cui le istituzioni faticano a garantire i diritti fondamentali, le regole e i valori; una città in cui tali diritti sembrano quasi un elemento residuale, l’organizzazione sociale genera frammentazione e violenza, che non è limitata a contesti ed episodi puntuali ma è un elemento che permea la vita quotidiana della popolazione.
Questo è anche il contesto in cui la vereadora Marielle Franco si trovava ad interpretare il suo ruolo di animatrice sociale che punta a cambiare le cose. Ed è da questo contesto che , alla fine, è stata tragicamente inghiottita. Allora, le due parole “lotta” e “denuncia” acquistano significato.
Perché ha senso parlare di diritti della popolazione nera e dei giovani delle favelas? Perché a Rio de Janeiro, come nel resto del Brasile, chi nasce nero ha molte più probabilità di morire di morte violenta. Delle oltre 22.000 vittime di azioni di polizia tra il 2009 e il 2016, oltre il 76% era di pelle nera e l’82% aveva un’età compresa tra i 12 e i 29 anni.
Perché ha senso parlare di diritti delle donne? Semplicemente perché in Brasile, nel 2016, ogni 10 minuti una donna è stata vittima di stupro e ogni due ore una è stata assassinata.
Perché ha senso denunciare che il diritto alla salute della donna e del bambino non è sempre garantito? Perché i dati evidenziano che nelle zone più povere della città, la mortalità infantile è sette volte più alta rispetto a quelle meglio servite dai servizi pubblici.
Un tessuto urbano così complesso e indicatori sociali che mostrano le profonde diseguaglianze esistenti all’interno di un unico municipio dovrebbero bastare a sfatare molte delle chiacchiere da bar e da social media. Per la percentuale di idiozia, purtroppo, non si può far nulla.
Marielle Franco lottava contro queste ingiustizie quando il suo progetto di legge per le Casas de Parto è stato approvato (si tratta di strutture attrezzate dove far nascere i bambini in sicurezza e che consentono un risparmio per i conti pubblici non indifferente rispetto al ricovero in ospedale).
Concentriamoci ora su un territorio circoscritto: il Complêxo da Maré dove è nata Marielle e dove vivono oltre 140.000 persone. È una realtà complessa, come la sua storia, un’area soggetta ad allagamenti dove, fino a non molti anni fa molti dei residenti vivevano in palafitta (siamo a ridosso della Baia di Guanabara e “maré”, in portoghese, significa marea). Oggi le cose sono cambiate. Con l’inizio degli anni Ottanta, gli abitanti hanno avviato esperienze associative che puntavano alla trasformazione dell’area e al miglioramento delle condizioni di vita. Le istituzioni sono intervenute e hanno realizzato opere di urbanizzazione. Con il tempo, sono stati anche inaugurati servizi pubblici essenziali.
Sulle orme delle prime esperienze associative, un gruppo di residenti che faceva parte dello 0,5% di popolazione di Maré che, all’epoca, aveva avuto accesso all’università, ha fondato nel 1997 l’ONG Redes da Maré. Alla base dell’azione della Redes c’è la convinzione che gli abitanti della favela posseggano un grande potenziale e possano essere parte attiva e autonoma del processo di trasformazione delle loro comunità. Quelli della Redes sono progetti basati sull’idea di mettere in piedi un processo strutturato e strutturante proveniente dal basso per il cambiamento di Maré. Marielle faceva parte di questo processo e, dopo aver visitato il Complêxo da Maré e aver conosciuto chi ha lavorato con lei, ho avuto conferma di quanto la sua perdita sia enorme.
L’esperienza della Redes da Maré e del Complêxo da Maré serve anche a sfatare il secondo mito di cui scrivevo: lo stereotipo della favela abbandonata totalmente a se stessa. È vero il contrario, e cioè che ci sono tante energie e una spinta verso l’innovazione che all’esterno non ci si aspetta.
Ciò non vuol dire che le difficoltà non siano gravi. Quella della Maré è una popolazione economicamente e socialmente svantaggiata, che vive sulla pelle la Guerra às drogas. Quella lotta al narcotraffico da parte delle forze di polizia e, allo stesso tempo, la strategia basata sulla repressione delle sostanze e non sulla regolamentazione di alcune di esse.
Nelle sedici comunità che compongono il Complêxo funzionano 44 scuole e 7 ambulatori. Secondo i dati del nucleo di sicurezza pubblica e accesso alla giustizia della Ong Redes da Maré, a causa dei conflitti, scontri, violenze nel 2017 il servizio degli ambulatori è stato interrotto per un totale di 45 giorni, mentre sono saltati in totale 35 giorni di lezione nelle scuole.
Saranno anche queste le limitazioni di diritti che Marielle denunciava? Saranno queste le lotte che portava avanti? Oppure, come è capitato di leggere, questi sono solo i “capricci di un’attivista”?