Terra e territorio in Sud America: più che un soggetto di discussione
Oggi in Sud America la terra e il territorio hanno connotazioni economiche e politiche di grande rilevanza; sono oggetto di un contenzioso tra, da un lato, il capitale agroindustriale con interessi nelle colture e negli allevamenti intensivi e nella speculazione immobiliare e, dall’altro, uomini e donne, contadini, indigeni e afro-discendenti, che custodiscono le loro usanze e la loro diversità, e trovano nelle campagne il modo di vivere in bilico tra la modernità e le loro radici, tra il mercato e la produzione di cibo in proprio, tra la dipendenza da un salario e la patrimonializzazione collettiva dei beni naturali.
A differenza del passato, oggi la terra non ha solo connotazioni produttive agricole: ha acquisito un eccezionale valore aggiunto in termini di culture e visioni del mondo, ambiente, difesa e gestione del patrimonio naturale e, in condizioni di mercato, di bene commerciale di duratura e veloce valorizzazione.
Una sostanziale differenza tra mondo europeo e Sud America è che in quest’ultimo sono sopravvissute forme collettive di proprietà e uso della terra ed identità locali, che in questo contesto chiamiamo popolazioni indigene, alle quali dobbiamo aggiungere una numerosa popolazione afro-discendente che ha adottato e consolidato le sue strutture territoriali principalmente nelle zone calde e costiere della regione. Salvo alcune eccezioni, gli stati riconoscono diritti simili alla popolazione indigena dell’America del Sud e a quella afro-discendente, principalmente perché condividono in larga misura simili condizioni di marginalità e strutture di comunità alternative.
Una seconda categoria importante è quella del territorio, con caratteristiche giuridiche diverse, che comprende il riconoscimento di spazi vitali che vanno al di là del terreno e del ciclo agricolo e che possono avere dimensioni molto diverse, da qualche ettaro a migliaia di ettari. L’inclusione del riconoscimento dei diritti di identità territoriale è uno dei maggiori contributi della popolazione indigena al dibattito e alle categorie sull’uso della terra e delle risorse naturali e sul concetto stesso di sviluppo nel mondo contemporaneo.
Al momento almeno un terzo delle terre e dei territori del Sud America è sottoposto al diritto di proprietà per il possesso e l’utilizzo, oppure si tratta semplicemente di occupazioni tradizionali a pieno titolo. Queste terre e territori sono gestiti collettivamente e localmente, per cui le decisioni sull’accesso, sull’uso, sulla convivenza delle famiglie e sui diritti assegnati ad associazioni, cooperative e ad altre figure organizzative vengono prese nell’ambito delle comunità o di altre unità territoriali rurali.
Dei quasi 420 milioni di abitanti del Sud America, oggi circa 96 milioni vivono ancora in ambiti rurali, in paesi come Bolivia, Paraguay, Colombia, Ecuador e Perù. La popolazione rurale è più ampia di quella di settanta anni fa, anche perché esistono oggi più comunità e insediamenti agricoli rispetto al passato. Sebbene i dati percentuali mostrino una crescita maggiore e più rapida nel caso della popolazione urbana, è comunque vero che anche la popolazione rurale è andata crescendo. In paesi come Brasile, Uruguay, Argentina, Cile e Venezuela la situazione è diversa. Ciò non significa che le campagne siano state completamente abbandonate o che le tensioni sul territorio siano inesistenti, come dimostrano i casi di violenza contro la popolazione contadina e indigena in tutti i paesi citati. In questi stessi paesi ci sono regioni ad elevato spopolamento accanto ad altre regioni che mostrano una crescita della popolazione agricola dovuta a nuovi fenomeni di ruralizzazione.
A questo punto, per definire le dimensioni della ruralità dobbiamo prendere in considerazione le statistiche, per quanto limitate e decontestualizzate, degli organismi ufficiali, che adottano un semplice criterio di densità demografica e tra l’altro non incorporano i fenomeni di doppia residenza, le attività multiple, le città piccole e intermedie, la separazione tra spazi abitativi e terre coltivate e i territori destinati allo sfruttamento delle risorse naturali rinnovabili. Fenomeni ben noti, sebbene non siano stati incorporati nella definizione teorica di ruralità, e ancor meno nelle statistiche ufficiali dei governi e delle organizzazioni multilaterali.
L’attuale distribuzione delle terre e le conquiste collettive di contadini, indigeni e afro-discendenti non sono un residuo del passato, né la fine del glorioso ciclo di riforme agrarie della seconda metà del XX secolo, ma sono un’espressione più recente delle lotte per la terra, di scelte operate dalle persone individualmente e collettivamente. Il movimento regionale per la terra e il territorio in Sud America ha organizzato in maniera sistematica le richieste e le azioni intraprese dalle persone, uomini e donne in questo scorcio del XXI secolo per conservare i loro territori, accedere a nuove terre e difendersi dalle spoliazioni forzate da parte delle grandi aziende e dello stato stesso.
Visto che in quasi tutti i paesi del mondo la popolazione rurale è statisticamente considerata più esposta alla povertà rispetto a quella urbana stipendiata, ci si potrebbe chiedere se la permanenza delle famiglie in campagna comporti una scelta di marginalità. E su questo si possono dare due risposte iniziali.
La prima è che la ruralità non è una condizione assoluta o statica. Le famiglie, gli uomini e le donne, non ritengono che il loro attaccamento alla campagna e ai territori di origine, dove svolgono attività rurali produttive e riproduttive, sia incompatibile con le loro incursioni in città, in attività temporanee di altro genere e in un mondo che certamente li attrae, ma non abbastanza da rimanerci, invecchiarci e morirci. I giovani migrano, circolano, vanno e vengono, anche se spesso non nello stesso luogo di origine, ma in altre terre e comunità verso le quali sentono attaccamento e nelle quali mettono su famiglia e trovano altre opportunità.
La seconda risposta è che, dopo la crescita delle città e il sogno industriale, l’universalizzazione delle categorie di sviluppo come occupazione, sicurezza legale, proprietà privata, sicurezza sociale, istruzione, salute e reddito monetario, non tiene conto della diversità delle persone e delle loro culture. Vale a dire che ciò che è stato considerato un successo universale, come lo sviluppo e la modernizzazione dei sistemi produttivi e riproduttivi, può invece rappresentare una sostanziale minaccia per quel gruppo di società, culture, uomini e donne che seguono e richiedono altre pratiche, altre forme di proprietà e di economia per poter vivere in modo soddisfacente e in armonia con il loro ambiente e che, nonostante la loro perseveranza, incontrano una lunga serie di ostacoli. L’arbitrarietà dei postulati di sviluppo ha imposto costrizioni come le norme sanitarie sul cibo o i sistemi di formalizzazione delle organizzazioni, o le conseguenze tributarie della formalizzazione e della partecipazione al mercato, per citarne alcune; nell’insieme, un apparato sistematico che pone in una situazione di svantaggio i contadini e gli indigeni che tentano di progredire secondo le proprie norme, giurisdizioni e orizzonti di vita.
Come in altre parti del mondo, in Sud America le comunità rurali continuano ad essere considerate il settore più povero e vulnerabile della società. Le scienze sociali si sono dedicate a teorizzare la disintegrazione di quelle comunità e la loro inclusione in altre sfere economiche e in città moderne, anche se in modo subordinato e marginale. Ma è necessario riconoscere che nel XXI secolo son finiti i tempi in cui il salario entusiasmava gli operai e il capitalismo i politici, in cui masse di uomini, e soprattutto di donne, entravano nel mercato e in industrie meno floride e sostenibili, e in cui l’occupazione nel settore pubblico e nell’esercito riducevano la pressione della disoccupazione.
Vale la pena di chiedersi di nuovo: “Cosa spinge le persone a restare nelle campagne? Cosa spinge altri a ritornarci? Cosa spinge gli uomini e le donne a cercare opportunità nel mondo rurale, anche senza conoscerlo particolarmente? Cosa spinge i popoli indigeni e dei quilombos a difendere i loro territori?”. Le spiegazioni possibili sono tante quante gli interrogativi, per cui, sebbene non ne sia scaturito un corpo teorico di sintesi, si è almeno rivitalizzata la produzione intellettuale che ha generato nuova militanza e attivismo, così come nuove fonti di ispirazione autorevole anche per le organizzazioni sociali e i loro rappresentanti.
È possibile che in futuro si torni alla classica teoria della ricchezza agraria, quando i proprietari terrieri dominavano il ciclo alimentare locale e le categorie sociali di ricchezza e povertà si spiegavano in gran parte secondo criteri di proprietà ed uso della terra. Senza ignorare che la relazione tra capitale e tecnologia ha determinato meccanismi economici e di distribuzione della ricchezza molto complessi, e anche la terra e le risorse che in essa si trovano hanno i loro; in condizioni di cambiamenti climatici, di disoccupazione strutturale e di crescente povertà globale, lì si trova un’alternativa da tenere in considerazione.
In ogni caso, nel prossimo futuro sarà necessario rimettere in discussione categorie e istituzioni che continuano ad essere descritte come universali, se non addirittura desiderabili, come la proprietà individuale del terreno o i criteri di produttività definiti dal semplicistico rapporto di rendimento per area. Ma soprattutto va rivisto il ruolo dello stato nelle sue competenze di amministratore delle terre come risorsa pubblica, per sostenere in modo più attento le comunità territoriali nella loro capacità di autogestione delle risorse, assegnazione dei diritti e organizzazione della vita rurale. I nostri studi sul movimento regionale per la terra e il territorio mostrano in modo molto chiaro che nell’assegnazione delle risorse le comunità rispondono in modo più adeguato, tempestivo ed efficiente delle burocrazie statali.