Questioni di genere e corruzione
Il dibattito quasi ventennale su “questioni di genere e corruzione” è iniziato nei primi anni duemila, quando la pubblicazione di due articoli avviò un’intensa discussione sul presunto nesso di causalità tra i due fenomeni: “Le donne sono davvero il sesso ‘più equo’? Corruzione e donne di governo” di David Dollar, Raymon Fishman e Roberta Gatti (2001) e “Genere e corruzione” di Anand Swamy, Stephen Knack, Young Lee e Omar Azfar (2001). In entrambi si pone in evidenza il ruolo delle donne come strumento di lotta alla corruzione, la cui efficacia sarebbe basata su una incorruttibilità “scientificamente provata”.
L’idea di fondo era che le donne, per loro natura, costituissero un “sesso più equo” (fairer sex): essendo meno corrotte degli uomini, avrebbero dovuto essere impiegate strategicamente dai governi per ridurre la corruzione nelle istituzioni pubbliche e nelle organizzazioni private. Le ipotesi formulate in questi articoli hanno influenzato varie decisioni politiche in più parti del mondo, per cui i governi hanno aumentato la partecipazione delle donne negli enti pubblici e creato varie task force per sole donne nel tentativo di ridurre la corruzione (Washington Post, 1999; Swamy et al., 2001).
Tuttavia, riesaminando oggi le principali tesi sostenute da Dollar e Swamy nei due lavori, è facile notare come fossero incomplete da più punti di vista. Considerando le donne di tutto il mondo come un unico gruppo omogeneo, mescolando i concetti di genere e di sesso, ignorando i contesti politici, culturali e sociali in cui queste donne sono inserite, ed utilizzando i dati di indici che si concentravano sulla grande corruzione piuttosto che sulla quella quotidiana che colpisce maggiormente la vita delle donne (Goetz, 2007), questi articoli hanno incoraggiato l’adozione di politiche che strumentalizzano le donne in chiave anti corruzione, invece di riconoscerne il diritto ad essere incluse nella vita pubblica.
Negli anni successivi alla pubblicazione di tali articoli, la comunità scientifica ha iniziato a ricredersi circa la definizione di “sesso più equo” e ha iniziato ad utilizzare quella di “sistema più equo” (fairer system). Sung ed altri autori che lo seguirono avrebbero quindi identificato non una causalità, bensì una correlazione tra donne e corruzione. Invece di sostenere che le donne sono intrinsecamente meno corrotte rispetto agli uomini, l’approccio del “sistema più equo” sostiene che i governi che cercano di aumentare la partecipazione femminile in politica tendono ad essere più democratici e trasparenti, il che comporta livelli più bassi di corruzione (Sung, 2003). In altre parole, non è perché ci sono più donne al potere che c’è meno corruzione, ma perché le politiche, la mentalità e le scelte strategiche che hanno portato a una maggiore partecipazione femminile in politica hanno anche comportato un miglioramento dei livelli di trasparenza e democrazia, che a loro volta hanno favorito una riduzione tangibile del livello di corruzione.
Sebbene questo cambiamento abbia rappresentato un importante passo avanti per la ricerca su genere e corruzione, ha continuato a non fornire una risposta adeguata alla domanda più importante che dovrebbe essere posta al riguardo. Non c’è infatti un sufficiente dibattito sugli effetti della corruzione sulla vita delle donne e sui modi più efficaci per combatterla. I ricercatori su genere e corruzione concordano attualmente sul fatto che la corruzione influisce in vari modi sugli individui e colpisce maggiormente le donne (Transparency International, 2009). Il fatto che le donne costituiscano la maggioranza dei poveri del mondo è uno dei fattori, ma non l’unico, che spiega questa realtà (UNDP, 2009). Dato che le donne tendono ad essere più dipendenti dai servizi pubblici, sono anche maggiormente coinvolte quando la corruzione riduce la quantità di risorse loro disponibili e ne ostacola loro l’accesso (Hossain, Musembi e Hughes, 2010).
Inoltre, poiché le donne di solito sono quelle che si prendono maggiormente cura della famiglia, spesso sperimentano in prima persona le conseguenze della corruzione se chiedono accesso ai programmi governativi, oppure se cercano di iscrivere i figli a scuola o di accedere alle cure mediche per i figli o per se stesse (Nawaz e Chêne, 2009). Uno studio dell’OMS del 2007 ha indicato che il 50 % delle donne che hanno partorito nei reparti ospedalieri di maternità in India meridionale ha ricevuto la richiesta di pagare una somma aggiuntiva per ottenere la presenza di un medico durante il parto. Un altro studio ha dimostrato che il 67 % delle ragazze intervistate in Botswana ha subito qualche forma di molestia sessuale da parte degli insegnanti della scuola e alcune di loro hanno pensato di abbandonare la scuola per questo motivo (U4 Anti-Corruption Research Network, 2010).
Più che una semplice richiesta di tangente, queste ragazze del Botswana hanno subito una forma di estorsione sessuale. L’estorsione sessuale (“sextortion” nella terminologia anglosassone) è definita come l’abuso di potere per ottenere benefici o favori sessuali (International Association of Women Judges, 2012). È un fenomeno globale diffuso in tutto il mondo, che colpisce donne e ragazze in qualunque società, ma soprattutto nelle aree più remote e nei paesi a basso e medio reddito. Nonostante la sua frequenza, l’estorsione sessuale è raramente compresa tra le definizioni di corruzione. Inoltre, questi abusi vengono raramente denunciati poiché le donne temono la vergogna e la stigmatizzazione che spesso ne deriva, senza contare le difficoltà di farlo in ambienti dominati dagli uomini (Transparency International, 2016). Nonostante l’abbondanza di dati che mostrano il rilevante impatto della corruzione sulle donne, attualmente non viene portata avanti la ricerca necessaria ad identificare i modi di ridurne gli effetti. La conseguenza è che i ricercatori e i responsabili politici continuano ad utilizzare indici completamente inadeguati per misurare il fenomeno (Provost, 2013). Ciò si traduce in misurazioni e rapporti lacunosi e non rappresentativi del problema, che portano a politiche pubbliche inefficienti ed inadeguate.
Sebbene la ricerca in questo campo si sia notevolmente evoluta negli ultimi sedici anni, c’è ancora molto da fare. Solo attraverso una migliore comprensione di come la corruzione colpisce le donne povere in tutto il mondo sarà possibile progettare strumenti di valutazione più appropriati, in grado cioè di rilevare correttamente la frequenza della corruzione, adottare una legislazione più incisiva, che includa le forme di corruzione più dannose per le donne, ed attuare politiche pubbliche più efficaci.
I responsabili politici saranno in grado di sviluppare strategie adeguate per affrontare il problema solo se avranno accesso a dati attendibili sugli effetti della corruzione sulle donne in condizioni di povertà. Si rendono necessari indici di corruzione più accurati, che siano inclusivi, sensibili alle questioni di genere e in grado di tener conto dei contesti sociali, economici e culturali delle aree prese in considerazione. Ciò non solo incoraggerà più ricerche sull’argomento, ma porterà anche alla formulazione di politiche pubbliche più rispondenti alle esigenze.
Affinché gli indici possano valutare le forme di corruzione meno “tradizionali”, come la piccola corruzione e l’estorsione sessuale, è importante che questi concetti siano chiaramente definiti per legge. È pertanto necessario formulare una legislazione nazionale e accordi internazionali contro la corruzione che tengano conto del differente impatto che la corruzione ha sulle donne. La legislazione anticorruzione deve definire la piccola corruzione e l’estorsione sessuale come forme di corruzione e come reati gravi; deve includere disposizioni che affrontino specificamente la corruzione nel sistema sanitario e scolastico, poiché questi sono i settori in essa pesa particolarmente, negando spesso alle donne l’accesso ai servizi pubblici (Chêne, 2009).