Il Parlamento ha recentemente approvato (14 febbraio 2018) una legge specifica (103-13) contro la violenza verso le donne, che è intrinsecamente contraddittoria. Questa legge penalizza le molestie sessuali negli spazi pubblici. Si tratta di una prima assoluta.
Ora “l’abbordaggio” per strada con parole o gesti o la persecuzione con telefonate e sms a sfondo sessuale rientrano tra i comportamenti penalmente sanzionabili, che possono comportare per l’autore una pena detentiva (da 1 a 6 mesi) e una multa (da 200 a 1000 euro). Tuttavia, la legge non riconosce lo stupro coniugale, nonostante le rivendicazioni delle femministe marocchine sull’argomento. Questa legge, proposta da un ministro islamico e sostenuta da una maggioranza islamista in parlamento, non poteva andare contro un versetto coranico chiaro e ineludibile in materia: “Quanto a quelle di cui temi la disobbedienza, esortale, abbandonale nel letto coniugale, colpiscile… se ti obbediscono, torna da loro“. In altre parole, la lotta contro la violenza sessuale non può andare oltre questa linea rossa. La moglie è, secondo il Corano, un campo da aratura che il marito può coltivare quando e come vuole.
Allo stesso tempo, questa legge riconosce la violenza economica come una violenza di genere nei casi in cui il marito non provveda a mantenere la moglie o a pagarle gli alimenti (in caso di divorzio). Ma non arriva al punto di identificare la disuguaglianza tra fratello e sorella in materia di eredità come una violenza discriminatoria. In proposito, malgrado la riforma del diritto di famiglia del 2004, regna ancora sovrana una legge di origine coranica.
Un rifiuto istituzionale dell’uguaglianza sotto tutti gli aspetti
Tra il 18 e il 20 marzo 2018, la direttrice del “Centro studi sulle donne nell’Islam” (Asma Lamrabet) della Rabita Mohammadia des Ouléma ha dovuto rassegnare le dimissioni per aver difeso la parità in materia di eredità. Per la Rabita, istituzione di natura politico-religiosa, predicare tale uguaglianza è contrario all’Islam e ai principi della stessa Rabita, che è una rappresentanza istituzionale dell’Islam, nonostante sia ufficialmente considerata aperta e tollerante.
Questo atteggiamento antiegualitario rispecchia il rifiuto dello stato di riconoscere l’esistenza di una violenza giuridica contro le donne, per cui si mantiene in vigore la legislazione che perpetua la discriminazione (economica) di genere e la disuguaglianza uomo-donna in materia di eredità: “Allah ti raccomanda (per quanto riguarda i tuoi figli): al maschio la parte di due femmine“. La cosiddetta sacralità irreversibile di questo versetto categoricamente discriminatorio ha portato la Rabita a “sbarazzarsi” della direttrice del suo centro studi. Aver obbligato Asma Lamrabet a dare le dimissioni ha dimostrato che né la Rabita né il suo centro di studi femminili sono istituzioni scientifiche. Se lo fossero, si sarebbe instaurato un dialogo scientifico tra un’interpretazione strettamente letterale (che respinge l’uguaglianza in materia di eredità) e un’opinione interpretativa socio-storicistica (che invece accetta tale uguaglianza). Entrambe le opinioni sono scientificamente ammissibili; la seconda ha il vantaggio di essere di ispirazione femminista, il che la rende inaccettabile per un’istituzione islamica.
Di conseguenza, il parere favorevole all’equiparazione è stato condannato non tanto come opinione risultante da un’analisi interpretativa, ma come opposizione inammissibile dalla Rabita, in quanto istituzione collegata al Comandante dei credenti, ad un Islam che non tollera interpretazioni che vadano al di là di un certo limite. La disuguaglianza di genere in materia di eredità è definita “una costante della comunità musulmana” nella dichiarazione della Rabita sulle dimissioni della direttrice. Pertanto, Lamrabet non è stata “cortesemente licenziata” perché portava avanti un’opinione in favore dell’uguaglianza, ma perché, in una certa misura, rappresentava una Rabita cui non è concesso toccare una “costante”.
Infatti, molti intellettuali (accademici e ricercatori) e attivisti marocchini avevano già difeso questa tesi egualitaria (sin dagli anni ‘80) senza subire alcuna sanzione. Nel 1984, ho scoperto una fatwa di Ibn Ardun (un giureconsulto marocchino del XVI secolo) che concedeva alla moglie metà della ricchezza accumulata durante il matrimonio in caso di divorzio o morte del marito. E dal 1987 ho iniziato a diffondere questa fatwa nelle mie pubblicazioni. A poco a poco ho identificato la necessità che l’Islam passi dal concetto di “equità” (a ciascun sesso ciò che è dovuto secondo l’enunciato letterale del Corano) a quello di “uguaglianza” (la stessa parte al fratello e alla sorella). Non ho mai avuto problemi con le autorità: ho parlato a titolo personale, come intellettuale femminista e sociologo impegnato. Tuttavia, mi sono attirato accuse di islamofobia da parte di alcuni critici islamisti. Più recentemente, uomini di diversa estrazione (me compreso) hanno difeso l’eguaglianza di genere nel diritto ereditario in un documento comune, pubblicato a marzo 2017.
Lamrabet ha quindi ripreso ciò che altri avevano difeso prima di lei, dimenticando di non essere un’universitaria o un’attivista, ma un membro della Rabita che l’aveva “cooptata” per ricoprire un incarico di alta responsabilità. Molto probabilmente, Lamrabet è stata costretta a dimettersi. Aver accettato di farlo equivale all’ammissione di aver sbagliato a difendere l’uguaglianza in materia di eredità a nome della Rabita. Questo è stato un errore: in effetti, Lamrabet avrebbe dovuto mantenere la sua posizione in favore dell’uguaglianza, per indicare che anche la Rabita ha il dovere di contribuire alla riforma dell’Islam (tra l’altro, in materia di eredità), e aspettare di essere licenziata per aver difeso la causa dell’eguaglianza. L’uscita di scena sarebbe stata più onorevole. Le dimissioni sono state quindi una seconda concessione, un modo per non ostacolare il potere costringendolo a licenziarla. In qualche modo, si è trattato di un’uscita diplomatica. Vale la pena ricordare qui che Lamrabet è la moglie dell’ex segretario generale del ministero degli Affari esteri, membro dell’Istiqlal, partito politico contrario all’uguaglianza in materia di eredità.
Conclusione
Per essere coerente sulla violenza di genere, la Legge 103-13 dovrebbe specificare che la disuguaglianza in materia di eredità è una forma di violenza di genere, in modo tale da portare sino in fondo alla logica antidiscriminatoria che la sostiene. Allo stesso modo, il diritto ereditario non ugualitario deve essere abrogato per rispettare la trasversalità dell’uguaglianza di genere. Allo stato attuale delle cose, l’applicazione di una legge di successione non ugualitaria (discriminatoria/violenta) viola lo spirito della legge antiviolenza (antisessista). La soluzione è relativamente “semplice”: completare la legge antiviolenza e abrogare la legge sessista sul diritto ereditario. Che il Re abbia preso di mira proprio quest’ultima, menzionando la necessità di riformare il codice di famiglia nella sua lettera alla “Quinta conferenza dei ministri responsabili per le questioni dell’infanzia”, recentemente tenutasi a Rabat? Il ruolo di Re ha forse preso il sopravvento su quello di Comandante dei credenti? Di fatto, la riforma avverrà lentamente e gradualmente nel segno di entrambi i ruoli del Capo dello stato, nel nome dell’Islam e nel nome della modernità. Per il Capo dello stato, è imperativo rimanere politico e saggio allo stesso tempo grazie al medesimo gesto, mantenendosi equidistante dalla teocrazia e dalla secolarizzazione.