La Tunisia, tra i paesi arabi, è stata sempre considerata dai governi occidentali e da parte degli esperti del mondo arabo un paese stabile e istituzionalmente più vicino al “nostro” modello di società. Infatti, grazie alla svolta modernizzatrice di Bourguiba prima e Ben Ali dopo, la Tunisia intraprese una serie di riforme che “laicizzassero” il paese in modo da “liberarlo” da modelli sociali non al passo con lo sviluppo globale.
Tuttavia, come per il resto dei paesi arabi, queste considerazioni sono risultate inesatte, in quanto molte di esse si focalizzavano più sugli assetti istituzionali che su quelli legati all’economia e all’inclusione del popolo tunisino all’interno di essa.
Tutto ciò ha influito molto anche sull’opinione pubblica dei paesi occidentali, compresa l’Italia, che si stupiscono del numero di richiedenti asilo provenienti dal paese nordafricano – molto basso rispetto ad altri paesi – approdati nel nostro paese negli ultimi anni. Nonostante una certa stabilità istituzionale – il caso tunisino, per quanto riguarda il mondo arabo, è molto diverso dai casi libico, siriano ed egiziano –, i dati sulla povertà e la disoccupazione del paese sono piuttosto allarmanti.
Per capire meglio le condizioni socio-economiche del paese bisogna ricostruire, in estrema sintesi, le fasi principali e le dinamiche che hanno portato alcuni cittadini tunisini a lasciare il paese in cerca di fortuna.
Nonostante un discreto sviluppo dalla metà degli anni ’80 fino ai primi del 2000, il regime tunisino ha de facto, e in modo più subdolo de jure, escluso da questa fase di crescita una buona fetta della società. Gli investimenti, finanziati dai prestiti del Fondo Monetario Internazionale, oltre che dare avvio a un nuovo periodo di sviluppo, hanno creato all’interno del regime una serie di reti clientelari costituite da membri della famiglia del presidente, imprenditori e uomini di affari vicini al partito di governo.
Lo sviluppo della zona costiera, con la conseguente crescita del settore turistico e dei servizi, non ha determinato uno sviluppo collettivo; piuttosto, questi nuovi investimenti hanno favorito il network clientelare del regime.
Coloro che non godevano dei favori del governo, si limitavano a lavorare – senza uno stipendio adeguato e senza tutele – all’interno dei grandi alberghi o come operai non specializzati delle industrie di estrazione di fosfati nella zona del Sud-ovest del paese o nel settore pubblico. Non bisogna inoltre trascurare l’immenso sviluppo del settore informale, che, nonostante fosse trascurato dai più, gioca un ruolo importante nell’economia del paese. Ad esempio, il settore del turismo è stato penetrato, a causa dell’incapacità del governo di proporre un’adeguata offerta alla sempre più alta domanda, da una serie di attività informali che vanno dal venditore ambulante di souvenir alla guida turistica non autorizzata. Molto spesso questo settore è costituito da giovani che, non avendo trovato un’occupazione adeguata, scelgono di intraprendere questa attività. Sono giovani senza una prospettiva occupazionale e molto spesso laureati; non a caso l’emblema della rivolta del 2011 è proprio il giovane Mohamed Bouazizi, giovane venditore ambulante che si diede fuoco dopo che il governo rifiutò di concedergli la licenza per la sua attività.
Tuttavia, se fino agli inizi del 2000 la Tunisia era uno dei paesi con la maggiore crescita economica dei paesi del Nord Africa, la crisi economico-finanziaria del 2008 ha allargato di fatto le disuguaglianze sociali. È in questo periodo che venne preparato il campo per le proteste della cosiddetta Rivoluzione dei gelsomini del 2010, che portò agli inizi del 2011 alla caduta del regime di Ben Ali.
L’instabilità del paese, sia a livello economico che sociale, ha fatto sì che molti tunisini abbandonassero il paese in cerca di fortuna in Europa, in particolare in Italia e in Francia.
La migrazione tunisina verso l’Italia in epoca contemporanea affonda le sue radici negli anni ’80. Se nel post-indipendenza (1956) si sceglieva la Francia come meta di migrazione – soprattutto per motivi legati al passato coloniale–, a partire dagli anni ’80 molti tunisini virarono sull’Italia.
I motivi di questo cambio di rotta possono essere ricondotti a due fattori fondamentali: la prossimità dell’Italia alla Tunisia e la mancanza di restrizioni all’ immigrazione in Italia. In Sicilia, è molto curioso il caso dei pescatori di Mazara del Vallo dove, in assenza di limitazioni sui permessi, molti tunisini intrapresero un’attività nel settore ittico integrandosi con la popolazione locale, mentre i giovani siciliani migravano verso le regioni del nord in cerca di lavoro.
È a partire dagli anni ’90 che le restrizioni sull’immigrazione hanno aperto la strada al fenomeno degli ingressi irregolari sul nostro territorio. Dinanzi all’acutizzarsi della repressione del regime di Ben Ali e all’innalzamento del tasso di disoccupazione nel paese, sempre più giovani – per lo più laureati – hanno intrapreso la rotta del mediterraneo approdando in modo irregolare nel nostro paese.
Come detto in precedenza, la grave crisi economica del 2007 e l’inizio delle proteste nelle zone industriali del paese hanno costretto il governo tunisino ad applicare severe politiche di austerità, costringendolo a dare un taglio netto al sistema di welfare e ai servizi.
È in quest’ottica che bisogna vedere la cosiddetta Primavera tunisina e la cacciata del dittatore Ben Ali. Seppure la rivolta popolare del 2011 abbia avuto un ruolo importante in termini di emigrazione dal paese, allo stesso tempo non si può affermare che la mancanza di stabilità sociale e sicurezza in Tunisia abbia fatto crescere gli ingressi nel nostro paese. Povertà e tasso di disoccupazione, già molto alti nel periodo pre-rivolta, non sono altro che la causa principale dell’immigrazione tunisina nel nostro paese.
Nonostante gli sforzi del nuovo governo nel tentare di costruire un paese democratico e “moderno”, la “nuova” Tunisia sta dimostrando di non avere pratiche soluzioni alternative per superare lo stallo economico.
Ancora una volta, come successe durante gli anni ’80, ’90 e 2000, il governo ricorre ai prestiti del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, tagliando sempre più il settore pubblico e promuovendo investimenti che non stanno portando ad una reale crescita collettiva del paese.