Il XX secolo è stato un periodo di conquista di diritti per i movimenti femministi in tutta l’America Latina. A partire dagli anni Cinquanta la maggior parte degli Stati della regione approvano il diritto di voto universale, senza restrizioni di classe sociale e livello di istruzione; gli ultimi ad approvarlo sono Paraguay e Perù (1979). È da quel momento che le donne iniziano ad essere rappresentate anche negli organi legislativi e a prendere parte alla vita politica dei loro paesi.
Dalla fine degli anni settanta il movimento femminista inizia a svilupparsi in maniera significativa e si estende, negli anni ottanta, a tutti i paesi dell’America Latina, anche emancipandosi dai partiti di sinistra nel cui alveo era nato e collegandosi con i movimenti popolari di donne, e soprattutto con la lotta per il ritorno alla democrazia in un momento in cui in numerosi paesi della regione erano ancora diffusi regimi dittatoriali.
È solo però a partire dalla metà degli anni novanta che le richieste dei movimenti femministi si traducono a livello istituzionale in politiche pubbliche adottate dai governi, favorite da uno scenario internazionale segnato dalla nuova agenda delle Nazioni Unite.
È infatti, soprattutto dopo il 1975 e la prima conferenza mondiale sulle donne tenuta in Messico, che le Nazioni Unite iniziano a giocare un ruolo decisivo nel movimento femminista e nelle politiche pubbliche per l’uguaglianza. Da questa conferenza nasce, a livello internazionale, la volontà politica dichiarata dagli Stati membri di realizzare sviluppi e progressi concreti sul diritto all’uguaglianza tra uomini e donne, sancito come obiettivo nella Carta delle Nazioni Unite del 1945. A questa prima e storica conferenza ne seguono altre di altrettanta importanza, fino ad arrivare a quella di Pechino vent’anni dopo, in cui si decide di spostare l’attenzione dalle “donne” al “genere”, riconoscendo che la struttura della società e le relazioni tra uomini e donne che si manifestano in essa devono essere cambiate. Si passa da un approccio semplicemente indirizzato alle donne (WID: Women In Development, “donne nello sviluppo”) ad un “approccio di genere” orientato ad individuare le asimmetrie, in ciascuna società, tra uomini e donne (approccio GAD: Gender And Development, ovvero “genere e sviluppo”). Nel vertice ONU del Millennio del 2000 vengono adottati gli otto Obiettivi di sviluppo del Millennio, tra i quali figurano due obiettivi specifici tesi a promuovere la parità dei sessi e i diritti delle donne.
In America Latina le ripercussioni di questa “ondata femminista” si fanno sentire soprattutto alla fine degli anni novanta, con il ritorno ad assetti democratici in diversi paesi come Argentina, Brasile, Cile, Messico. Anche in Perù, con un po’ di ritardo rispetto alla maggior parte dei paesi del continente, all’inizio del nuovo millennio riprende il processo elettorale democratico e con esso si inizia a parlare di politiche pubbliche per l’uguaglianza tra uomini e donne. Dal 2001, tramite la costituzione di una Commissione ad hoc, inizia un processo di ricerca di verità e giustizia di fronte ai crimini contro l’umanità e alle violazione dei diritti umani compiuti durante la dittatura, tra cui la drammatica storia delle centinaia di migliaia di sterilizzazioni forzate soprattutto di donne delle classi sociali più umili delle Ande e della selva Amazzonica, volute dal governo militare di Fujimori con il sostegno del Fondo Monetario Internazionale, di Banca Mondiale e USAID.
Anche se non si può, né a livello del Perù né a quello regionale, limitare il movimento delle donne alla sola corrente femminista – che si intreccia in questa parte del continente con i movimenti popolari delle donne e con forze politiche tradizionali – è doveroso sottolineare che il movimento femminista registra una presenza molto forte nel paese, permea le altre correnti e favorisce l’incontro tra le istituzioni e la società civile al fine di inserire nell’agenda pubblica il problema della discriminazione delle donne e dell’uguaglianza dei diritti. Conseguenza di questo cambiamento è l’introduzione, con i primi governi democratici, di leggi specifiche e in seguito di organi governativi e ministeriali per l’uguaglianza di genere, la promozione e l’applicazione dei diritti delle donne.
Si iniziano ad adottare leggi a livello nazionale come i Piani Nazionali per le Pari Opportunità (il primo è del 2000), la Legge sull’uguaglianza di opportunità tra uomini e donne (2007), i Piani Nazionali per l’uguaglianza di genere (2012), piani regionali e locali. Questi strumenti legislativi si moltiplicano nel tentativo di recepire ed attuare tutti gli accordi internazionali e regionali in materia firmati dai governi del Perù.
Accanto a questo femminismo istituzionale si sviluppa anche un movimento per i diritti delle donne più popolare, peculiare delle province più escluse e povere del paese. Movimenti appoggiati da organizzazioni non governative nazionali e straniere, ma anche autonomamente da club di madri, associazioni di donne auto-organizzate nei cosiddetti “comedores populares” (una sorta di mense popolari), gruppi di donne appartenenti al mondo contadino. Questo movimento in crescita, soprattutto dal secondo decennio degli anni Duemila, gode oggi di una grande visibilità, soprattutto grazie alla popolarità delle sue aderenti, donne leader che si stanno imponendo anche nello scenario internazionale. “Lideresas indígenas” della selva amazzonica o degli altipiani delle Ande, impegnate nella lotta per i diritti umani delle donne, attiviste ambientali che combattono ogni giorno per difendere le risorse naturali del territorio in cui vivono e da cui traggono sostentamento. Non è un caso che ben tre donne peruviane abbiano vinto il Premio Goldman, “il Nobel per l’ambiente”, nel nuovo Millennio (2003, 2014 e 2016). Alcune delle loro lotte sono state definitivamente vinte, altre no: si trovano in una fase di stallo e potrebbero riaccendersi da un momento all’altro.
Sul piano della rappresentanza politica si registra un miglioramento della presenza femminile a livello soprattutto locale, mentre a livello nazionale le ultime elezioni politiche hanno visto un 30% scarso di donne elette nel Congresso della Repubblica (36 su 130 deputati), di cui solo una di etnia indigena, a sottolineare come il divario di genere si allarghi con il fenomeno dell’intersezionalità, cioè quando la discriminazione di genere si intreccia con altre categorie sociali come l’etnia e la classe.
A livello nazionale ci sono ancora forze che si oppongono alle politiche di uguaglianza; negli ultimi anni anche in Perù si è fortemente sviluppato un movimento contro la teoria dell’uguaglianza di genere, appoggiato e finanziato soprattutto da chiese evangeliche pentecostali, ma anche da una parte della Chiesa Cattolica, che si oppongono per esempio all’approvazione di un curriculum nazionale per l’educazione sull’uguaglianza di genere.
I dati odierni sono ancora sconfortanti, soprattutto per quanto riguarda le violenze fisiche e psicologiche subite da donne e bambine: in Perù l’aborto è ancora illegale, nonostante i molti casi di gravidanze di minorenni o frutto di violenza sessuale (12.7% è la percentuale nazionale di adolescenti madri o in stato di gravidanza). Anche l’indice di mortalità materna, pur essendo in diminuzione, registra 325 casi nel 2016.
Diverse ONG, analisti e forze politiche (di minoranza) sottolineano che il Perù non ha ancora fatto progressi concreti in materia di uguaglianza di genere(i), lotta alla discriminazione e alla violenza contro le donne o alle persone LGTB (in questo caso la situazione è ancora peggiore). Le cifre lo dimostrano: secondo dati INEI (Istituto Nazionale di Statistica), in base all’Indice di disuguaglianza di genere la disparità di genere registra un 0.391, dove l’uguaglianza corrisponde a 0. Ovviamente dagli anni Duemila questo indice è in diminuzione, ma il divario tra uomini e donne ancora esiste e tocca quasi un 40% per quanto riguarda i diritti alla salute, al lavoro, all’istruzione e alla partecipazione politica. Preoccupante è il dato sui femminicidi: nel 2017 il Ministero delle donne registra 117 casi e più di 60.000 casi di violenza fisica e psicologica. L’Organizzazione degli Stati Americani (OEA) indica il Perù come il secondo paese dell’America Latina per numero di violenze sessuali sulle donne; dato che ha scatenato una reazione molto forte anche in contesti più nazionalpopolari, come l’ultimo concorso di Miss Perù del 2017 che ha visto diverse candidate denunciare i numeri drammatici della violenza sulle donne (stupri e femminicidi).
Di fronte a dati del genere, in molti casi negativi e drammatici, il paese non reagisce ancora in maniera determinata e compatta contro i fenomeni di discriminazione, violenza e violazione di diritti umani. Nonostante il Perù abbia registrato uno sviluppo macroeconomico da record negli ultimi quindici anni, i diritti umani fondamentali, l’uguaglianza tra i generi, l’inclusione sociale non hanno seguito la stessa tendenza. Le condizioni di molte persone, soprattutto donne, sono peggiorate. Il cammino per il consolidamento di una democrazia in cui siano garantite a tutti le stesse opportunità e quello dei movimenti femministi e per l’uguaglianza di genere(i) è ancora lungo e difficile.