La pesca è un settore fondamentale per l’economia e la società in Sri Lanka. Il paese è stato segnato nel decennio scorso da una drammatica guerra interna, che ha visto le Tigri per la liberazione del Tamil Eelam combattere per la separazione della regione del Tamil in opposizione alle forze governative, che nel 2009 finirono per prevalere. Si è fatto spesso riferimento alla divisione etnica come spiegazione di questo conflitto; in realtà, al di sotto delle fratture etniche e culturali covano disuguaglianze sociali ed economiche profonde, in cui le caste, la localizzazione geografica e le questioni di genere sono determinanti.
Proprio il settore della pesca è stato al centro delle discussioni per la ricostruzione post bellica. Le province del nord e dell’est del paese prima del conflitto contribuivano per il 64 per cento al totale della pesca nazionale; pesantemente colpite dalla guerra, hanno visto il loro peso diminuire fino a raggiungere il 20 per cento del pescato nazionale, per poi risalire poco al di sopra del 38 per cento nel 2010, dopo la fine delle ostilità. La pesca, ancor più che per il valore monetario, è considerata un settore chiave per l’occupazione: nel 2012 si calcolava che su 15 distretti interessati dalla pesca, tre di questi situati nelle province orientali davano lavoro al 38 per cento del totale degli occupati e il solo distretto di Trincomalee ne occupava il 14 per cento (circa 34 mila pescatori in attività censiti dal Ministero della pesca nel 2016).
Si è fatto spesso riferimento alla divisione etnica come spiegazione di questo conflitto; in realtà, al di sotto delle fratture etniche e culturali covano disuguaglianze sociali ed economiche profonde.
In Asia, il lavoro delle donne nel settore della pesca è tradizionalmente ignorato o, comunque, sottostimato, soprattutto per quanto riguarda la raccolta di alghe marine, la manutenzione delle reti, la preparazione del cibo per i pescatori, la vendita al mercato del pesce, le attività di trasformazione, commercializzazione e pulizia del pesce, nonché quelle più a valle della filiera quali cucina e ristorazione. Si tratta spesso di un coinvolgimento nei ruoli meno visibili e sicuramente non in funzioni di vertice o di controllo, svolte prima, dopo e anche a latere dell’attività di pesca con la rete; mansioni queste che implicano molte ore di duro lavoro e retribuzioni più basse di quelle dei pescatori di sesso maschile. A sancire la separazione di genere, è diffusa l’opinione che le donne non possano nemmeno toccare le imbarcazioni, cosa che le renderebbe impure e porterebbe sfortuna. Del resto, anche simbolicamente, si parla di villaggi di pescatori, implicitamente facendo riferimento solo all’attività degli uomini che si imbarcano e vanno a pescare con le reti; inoltre, sul piano politico le azioni a sostegno della pesca sono sempre indirizzate a favore dei pescatori uomini e, non a caso, mancano sempre i dati disaggregati per genere del settore della pesca.
L’autrice approfondisce in particolare, in questo studio, il caso di donne appartenenti a gruppi socio-economici marginalizzati, quali le comunità musulmane, tamil (che sono hindu e originari dell’India) e veder (le popolazioni native) sulla costa del distretto orientale di Trincomalee, mentre non si trovano riferimenti alle comunità singalesi (che sono buddiste) o cattoliche, di più recente insediamento nella regione e con ridotto scambio interculturale. La sovrapposizione di diverse marginalità – di tipo etnico, di casta e di genere – determina una marginalità strutturale e composita delle donne, secondo l’approccio della cosiddetta intersezionalità, che considera l’interazione tra genere, etnia e altre categorie di discriminazione individuale, pratiche sociali, norme e istituzioni, come chiave di lettura e interpretazione degli squilibri di potere. Al contempo, pur in una situazione di svantaggio, le donne esercitano proprie forme di protagonismo (agency) e potere che occorre approfondire, in quanto fonte della formazione di identità a livello individuale, di percorsi lavorativi e strategie di sopravvivenza. È la stessa agency delle donne che permette loro di resistere ma anche di riprodurre le disuguaglianze strutturali che patiscono.
L’autrice studia nel dettaglio la situazione delle donne sulla spiaggia della piccola e stagnante laguna di Kinniya, raccoglitrici di alghe marine e gamberetti, spesso prodotto di scarto della pesca degli uomini che se ne liberano tirando le reti a riva. Le donne vendono alghe a produttori di biscotti e gelatina al di fuori del distretto, assicurandosi così un reddito di circa mille rupie dello Sri Lanka (circa 5 euro) al giorno.
Le donne impegnate nella spigolatura di vongole e cozze appartengono tradizionalmente alle comunità musulmane, mentre quelle in attività con le reti sulla spiaggia provengono sia dalle comunità tamil che veder.
Le donne vendono alghe a produttori di biscotti e gelatina al di fuori del distretto, assicurandosi così un reddito di circa mille rupie dello Sri Lanka (circa 5 euro) al giorno.
Nel sistema delle caste della comunità singalese, i pescatori occupano una posizione intermedia; lo stesso avviene per il sistema di caste dei tamil, pur trattandosi di sistemi distinti, visto che collocano la casta dei pescatori al di sotto di quelle degli agricoltori, di chi vive nei templi e dei commercianti di oro. Ancor peggiore è lo stigma sociale e la conseguente marginalizzazione nei confronti delle donne musulmane dedite alla spigolatura del pesce. Del resto, quest’attività appare come una strategia di sopravvivenza e chi trova alternative l’abbandona, come nel caso delle donne musulmane emigrate temporaneamente nei paesi del Golfo che, una volta rientrate, non tornano a spigolare il pesce in laguna. Per contro, lo status socio-economico più elevato delle donne sinhalesi permette loro di non “abbassarsi” a quel lavoro in laguna.
Nel caso delle comunità native, che non contemplano divisioni in caste, il lavoro delle donne con le reti sulla spiaggia è informale e non riconosciuto, dal momento che le licenze sono concesse solo agli uomini. Si avvale fortemente di reti parentali, cosicché sfuma molto la differenza tra il ruolo privato e familiare da un lato e quello pubblico e lavorativo dall’altro. Allo stesso tempo, le donne si guardano bene dal mettere in discussione le aspettative degli uomini circa il ruolo femminile e la reputazione sociale e familiare delle donne, così come è definita dalla tradizione.
I singalesi sono tradizionalmente dediti al commercio – settore solitamente appannaggio degli uomini – e non appartengono alla casta dei pescatori. Controllano però le pescherie nel mercato del pesce a Trincomalee e, con la guerra prima e la ristrutturazione del mercato poi, le poche donne tamil coinvolte nel mercato sono scomparse. Diversamente da altre etnie, la divisione del lavoro nelle comunità singalesi appare netta e non consente sfumature tra la sfera privata e pubblica delle donne; il periodo della guerra, che ha comportato la necessità di proteggere le donne dall’invasione nemica, ha rafforzato questa tendenza.
Quel che complessivamente l’autrice segnala è l’interazione e l’intersezione di genere, etnie, caste e localizzazioni che, insieme a cultura e tradizione, contribuiscono a definire disuguaglianze e identità, traducendosi, nel caso delle donne, in un accesso differenziato a risorse e opportunità per sopravvivere e realizzarsi.
Le istituzioni governative come il Dipartimento per la pesca alimentano questa segregazione, non riconoscendo di fatto dignità, peso e attenzione alle attività femminili. È vero che il carattere informale e la natura spesso stagionale di tali occupazioni, non di rado diversificate proprio come strategia di adattamento alle necessità e alle opportunità offerte dai diversi periodi dell’anno, non facilitano il lavoro delle amministrazioni pubbliche e la rilevazione dei dati, trattandosi comunque di numeri disponibili in misura estremamente limitata.
Il concorso delle istituzioni pubbliche, delle comunità, degli uomini, ma anche delle donne stesse – che non si definiscono pescatrici ma raccoglitrici o spigolatrici – rafforza la subalternità femminile e la mancanza di partecipazione delle donne ai processi decisionali formalizzati nel settore della pesca. Il contesto bellico e post-bellico hanno contribuito allo stesso processo, escludendo di fatto le donne dai momenti negoziali tra i pescatori e le autorità militari e di polizia che controllavano le coste.
Il concorso delle istituzioni pubbliche, delle comunità, degli uomini, ma anche delle donne stesse rafforza la subalternità femminile e la mancanza di partecipazione delle donne ai processi decisionali formalizzati nel settore della pesca.
Essere lavoratrici nel settore della pesca, di fatto invisibili agli occhi del settore pubblico, comporta anche un mancato coinvolgimento nelle politiche indirizzate a sostenere la pesca di piccola scala, come, ad esempio, i programmi di microcredito.
Le donne oggetto dello studio non rinunciano a ritagliarsi spazi di potere e negoziare ambiti lavorativi, in un continuo adeguamento al contesto e alle condizioni in cui operano, ma è chiaro che l’intersezione dei diversi piani di discriminazione trova concreta applicazione nei casi studiati.